recensione a cura di Luigi Scavo, III C
Antonio Salieri. Il nome riecheggia per tutta la rappresentazione. Viene gridato, declamato, sibilato dai venticelli del maestro, ora nascosti dietro la purezza di una candida maschera bianca, ora celati nella quotidianità. È un’eco di gioia, di passione, di tormento. È la coscienza assordante di Salieri, voce narrante che accompagna fedelmente lo spettatore. Racconta una storia dalla comicità radicalmente tragica: la storia di Wolfgang Amadeus Mozart e di come Salieri stesso ne uccise non tanto il corpo quanto il genio.
Vienna, 1823. Un gioco di luci ed ombre accompagna le reminiscenze dell’io narrante, che si rivela un instabile io lirico alla ricerca di una pace interiore irraggiungibile, ostacolata dalla radicata invidia per Mozart. Note solenni e a tratti dolenti guidano i monologhi sofferenti di Salieri. Ma non sono note qualunque: sono melodie di Mozart, che rendono l’atmosfera ancor più paradossale e melanconica. Il drammaturgo gioca abilmente su un’evidentemente eccessiva volgarità di Mozart, la cui eccentricità fa risaltare ancora di più l’afflizione di Salieri. Da grande maestro quale era, si trova trascurato da una frivola realtà, rappresentata dalla figura di un re inebriato dalla propria regalità e dai suoi consiglieri altrettanto altezzosi. Ogni atto, ogni dialogo è, quindi, impregnato di comicità ed ironia. Ilari e vani i tentativi di Salieri di spodestare l’usurpatore dal suo primato sul panorama musicale.
Il carattere altalenante della rappresentazione riesce nella sua interezza a far trasparire il senso di amarezza nel quale, alla fine, sprofondano sia Salieri sia Mozart: entrambi annegano nel mare dell’esistenza, rincorrendo l’uno l’identità dell’altro.