Si mostra deciso e sicuro Luigi Di Maio mentre, nel Tempio di Adriano, davanti a tutti i principali compagni di partito, annuncia le dimissioni da capo politico del Movimento 5 Stelle. La decisione non arriva di certo senza preavviso, da tempo si parlava di una possibile rinuncia da parte dell’attuale Ministro degli Esteri del ruolo di leader. Ovviamente non sono mancate le critiche, soprattutto relative alla tempistica: Di Maio ha lasciato la leadership quattro giorni prima delle elezioni in Emilia-Romagna e Calabria, che hanno visto una débâcle totale del Movimento. Dunque le dimissioni sono sembrate quasi una fuga dalle responsabilità di una sconfitta che poteva essere evitata non presentando le liste, come aveva sempre sostenuto Di Maio stesso.
L’esperienza di Di Maio come capo politico del Movimento inizia nel 2017 e a suon di “onestà! onestà! nel 2018 i 5 Stelle raggiungono l’apice del consenso, con il 32%. Il giovane politico campano ha avuto di sicuro il merito di aver portato i grillini al governo, tentando, seppur con risultati non sempre esaltanti, di dare un volto istituzionale e moderato ad un partito nato con l’intento di sconvolgere i tradizionali paradigmi della politica, anche a costo di comportamenti non appropriati al ruolo ricoperto. Nonostante ciò Di Maio stesso si è reso spesso protagonista di azioni istituzionalmente non ineccepibili, per esempio le accuse di impeachment al presidente della Repubblica e le foto con i leader dei Gilet Jaunes, causa di una breve crisi diplomatica con la Francia. Durante il periodo del governo gialloverde tuttavia quel 32% viene velocemente fagocitato dal crescente consenso della Lega, che anche nella maggioranza sembra essere il partito più influente. Tutte le elezioni, regionali ed europee, dopo l’inizio dell’esperienza di governo sono deludenti. Quell’anelito populista, che di questi tempi sembra essere ricercato da molti italiani, pare trovar dimora non più nelle proposte grilline, ma in quelle di Salvini, che ad Agosto 2019 fa cadere il governo, nella speranza di capitalizzare il consenso con nuove elezioni. Con l’insediarsi del governo giallorosso, Di Maio trasloca alla Farnesina, da dove ha il compito di gestire, oltre all’ordinaria amministrazione, anche i recenti tumulti in Medio Oriente e la crisi libica. Proprio a causa di questi impegni forse è arrivata la scelta delle dimissioni: l’amministrazione di un partito in evidente difficoltà e insieme la gestione di un ministero importante come quello degli Esteri risultava effettivamente un compito troppo gravoso. L’ormai ex leader pentastellato continua ad incarnare alla perfezione il grillino istituzionale ed è protagonista di una fase governativa che ha combaciato anche con un drastico calo nei consensi dei 5 Stelle. Di Maio lascia in eredità un partito ai minimi storici, diviso e confuso, e affida al suo successore il difficilissimo incarico di trovare lo spazio per tornare a crescere in uno scenario politico che sembra aver riacquistato la consueta dicotomia destra-sinistra, dopo la breve parentesi post-ideologica. Il Movimento 5 Stelle è dunque ad un bivio: abbandonare definitivamente ogni velleità populista in favore di una visione più progressista e moderata, come vorrebbe il presidente del Consiglio Conte, oppure tornare al grillismo delle origini, insistendo nel percorrere la strada della demagogia.