di Giulia Di Pancrazio

Spirava un uomo nella penombra del suo monolocale. Spirava in silenzio, senza emettere un suono, senza motivo né perché. 

Avesse esalato l’ultimo dei suoi respiri esattamente nove minuti più tardi, forse si sarebbe affacciato alla finestra accanto al suo letto, e avrebbe visto la pallida Ida china sul marciapiede, sul lato opposto della strada. Se quest’uomo fosse anche stato graziato col dono di due occhi buoni, forse si sarebbe accorto anche del passero e del suo minuscolo corpicino aperto in due, acceso di rosso. Morto. 

Quello che non avrebbe potuto vedere, né tantomeno immaginare, era l’invidia che provava Ida in quel momento nei confronti della disgraziata creatura. 

Ida, che aveva due occhi tanto belli, e che girava lo zucchero nel caffè con delicatezza infinita! 

Che cosa avrebbe dato, quella ragazza di sospiri e nebbia, per un fragile scheletro di passero, dalle ossa leggere e vuote, troppo facili da spezzare, ed un cuore tanto pavido da fermare il suo battito al primo dispiacere! 

Lei era venuta al mondo con corpo ed ossa forti abbastanza da permetterle di vivere grossolanamente e con noncuranza, senza prendere la sua esistenza con la dovuta serietà, ed un cuore spavaldo quanto basti per trovare il coraggio di amare. 

Ma che le si frantumassero le ossa, che le esplodesse il cuore! Non voleva né l’uno né l’altro. 

Eppure Ida (crudele Ida, pietosa Ida) che non riusciva a trovare né il coraggio per disintegrarsi, né quello per continuare a vivere, quell’innocente straziato sul marciapiede tanto l’odiava, ed odiava forse con più ardore il motorino distratto che aveva reso tanto facile la scelta tra il vivere e il morire, uccidendolo lui stesso. Per sbaglio! Che dolcezza immensa, morire per errore! 

Andarsene in principio o sul più bello, oppure quando nessuno se lo aspetta. 

Sarebbe stato certo più facile, morire così.  

Avrebbe in egual modo apprezzato le disperate urla di sua madre come le due lacrime silenziose di un suo compagno di classe. Le sarebbe piaciuto udire anche le condoglianze disinteressate dei vicini di casa ed i sospiri sul pianerottolo, quando si pronunciava il suo nome. 

Si immaginava eternamente fredda e bianca, seppellita nella terra nera, e pensava che sarebbe stata contenta, così. Che essere morta faceva per lei. Ida, inciso su una lapide in marmo, ci sarebbe stato bene. 

Però poi si immaginava al posto di quel passero, e si vedeva lei col petto aperto ed il cuore ridotto a poco più di una macchia violenta, in quel corpo terribilmente, irrimediabilmente storpiato, e l’immagine della sua figura bianca, annegata in tutto quel rosso, ad Ida faceva paura. 

Ora, se Ida fosse uscita da scuola esattamente nove minuti prima, se non avesse perso tempo a impiastricciarsi le ciglia di mascara, allora forse, sulla via di casa, avrebbe alzato gli occhi verso il palazzo sul lato opposto della strada. Un palazzo non particolarmente affascinante, addirittura quasi noioso.  

Eppure forse, solo forse, la bella Ida avrebbe buttato l’occhio azzurro sulla finestra del terzo piano; l’unica aperta. 

E se a seguito di tutte queste coincidenze, fosse riuscita a veder l’uomo che moriva, con la sua silenziosa richiesta di aiuto ferma in gola. 

Se si fossero guardati, se si fossero guardati, anche un solo secondo! Allora forse, e solo forse, quell’incontro di occhi morenti avrebbe salvato entrambi. 

Ma l’uomo morì troppo presto ed Ida arrivò troppo tardi, non si incontrarono mai e con i resti del passero ci banchettarono i gabbiani.

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