di Matteo Brancia

Lo psicanalista Massimo Recalcati, in un suo breve saggio, affronta due tematiche centrali all’interno della società odierna: la prima consiste nel rapporto genitore-figlio. Recalcati sostiene che i genitori provano due angosce: il bisogno di essere amati dai propri figli e la necessità di eliminare tutti gli ostacoli per agevolare la loro crescita. La prima angoscia porta il genitore ad accettare e concedere al figlio un sì a qualsiasi domanda, non riuscendo così ad adempiere al suo dovere di genitore: trasmettere la loro morale (giusta o sbagliata che sia) alle future generazioni. La seconda angoscia invece porta da una parte ad attenuare le difficoltà dello studente medio, ma allo stesso tempo conduce all’assenza dell’apprendimento che scaturisce dall’esperienza; in parole povere levare gli ostacoli comporta che il figlio non fallisca, ma è tramite il fallimento che l’uomo cresce e impara.

La mia posizione su questo tema è in accordo con quella dell’autore. Ritengo che un genitore debba imporre dei limiti al proprio figlio, per fargli comprendere innanzitutto che esso deve rispettare l’autorità del genitore, e in secondo luogo per comprendere ciò che per la sua famiglia è giusto o sbagliato. Il figlio potrà così imparare i principi morali seguiti dalla sua famiglia e avrà la possibilità di accettarli o confutarli, elaborando uno spirito critico autonomo. Il beneficio del genitore su questo tema invece è l’attuazione del ruolo che spesso i genitori accantonano o dimenticano (il ruolo di genitore per l’appunto) e la trasmissione della sua morale alle generazioni future. Il genitore odierno, che sia di periferia o di un quartiere benestante, alienato dal lavoro, tende ad accettare passivamente o ignorare le decisioni del figlio, volendo tornare al tanto amato lavoro, oppure a ritagliarsi un momento di tempo per se stesso, ed essere comunque amato dai propri figli. Quel tempo libero invece dovrebbe essere usato per l’educazione dei propri figli che, oltre a essere formativa per tutti e due, è anche piacevole, ed è, probabilmente, anche la ragione per cui una persona dovrebbe avere un figlio: trascorrere del tempo insieme, educarlo e trarne piacere, invece che ritagliare il loro tempo per superflue attività o ore di lavoro aggiuntive, che portano solo a un eccessivo affaticamento.

Se dovessi rispondere a uno di questi genitori che si domandano come fanno ad essere amati dai propri figli, chiederei loro se sono veramente sicuri di volerne avere di figli, poiché il mestiere di genitore (poiché il genitore è un mestiere che lo si voglia o meno) non comporta solo piacere, ma anche doveri e responsabilità e quindi anche rispondere con un “No” quando c’è bisogno.

Il secondo problema che affligge i genitori invece è quello di dover smantellare gli ostacoli che la scuola pone nei confronti di uno studente. La risposta la troviamo già nel titolo del saggio di Recalcati: “La formazione passa per la via del fallimento”, la scuola, a parer mio, è lo specchio della nostra società: La scuola è meritocratica (elogia solo il più bravo senza riconoscere gli sforzi degli altri), competitiva (aumenta la competizione fra i singoli, distruggendo così il senso di unione che dovrebbe trovarsi dentro una classe/società) e punitiva verso chi sbaglia. Un professore durante l’anno scolastico è più probabile che chieda l’argomento del giorno a chi è sicuro che abbia studiato, potendo così andare avanti con il programma e ignorando le lacune di alcuni studenti: questo è il prototipo del professore auspicato dai genitori in cui non conta il contenuto, ma solo le apparenze.

Ma tralasciando quest’analisi abbastanza pessimista, ritengo che l’uomo, e ancor di più un uomo giovane e in formazione, debba inciampare in degli errori per così trarne esperienza e conoscenza. Molte volte i professori vengono posti di fronte a delle figure che ostacolano il loro lavoro: i genitori. Figure che dovrebbero instaurare un dialogo fra lo studente e il professore, ma invece si oppongono ai docenti aspirando all’eccellenza dei propri figli, guardano solo al guadagno finale senza premiare il percorso e senza approfondire se gli studenti hanno appreso delle conoscenze utili per continuare il percorso di studi. Questi genitori non si accorgono del fatto che, andando in contrasto con i professori, criticando il loro metodo d’insegnamento, non aiutano lo studio dei propri figli, ma gli impediscono di apprendere in modo approfondito le materie, condannandoli ad una ignoranza che si protrarrà non solo nei futuri anni di studio, ma anche nella vita quotidiana.

Un genitore che protesta per un voto con l’insegnante, non vuole accettare il fatto che il proprio figlio non studi nel modo corretto e non vuole riconoscere il proprio fallimento nella crescita dei suoi figli. Una volta mi è stato raccontato di un emblematico colloquio fra un genitore e una professoressa: il genitore, una madre, protestava per il voto che era stato dato a sua figlia in un tema. Un 6, un voto che agli occhi della madre non era abbastanza: “Mia figlia non è da sei, mia figlia è da nove!” e iniziò a sbattere il tema sulla testa dell’insegnante con vigorosa rabbia. Quella madre voleva eliminare un “ostacolo” tra sua figlia e il tanto desiderato nove, ma probabilmente la professoressa aveva dato quel voto rispecchiando lo studio che la studentessa aveva fatto, evidentemente dal suo punto di vista inadeguato. Quel sei avrebbe dovuto invece far scaturire nello studente uno stimolo a voler andare meglio, a studiare di più; Uno stimolo che dovrebbe ottenere dal genitore, ma spesso non accade.

La gratificazione egoistica del genitore che desidera un figlio eccelso, all’apparenza ignorando se lo sia davvero nel concreto, è tipica dei genitori svogliati, nel senso che, essendo impegnati in altre occupazioni o semplicemente fregandosene, non svolgono il mestiere del genitore, pretendendo comunque dai figli un’alta media dei voti per mantenere le apparenze. Viviamo in una società dove l’esteriorità è l’unica cosa che conta, dove la persona in sovrappeso è “brutta” perpetuando lo stigma grassofobico, dove un uomo o una donna con tatuaggi non vengono assunti, poiché i loro tatuaggi non sono abbastanza professionali, dove il trucco su un ragazzo o una tendenza di stile maschile su una donna sono vergognosi, dove lo straniero non può mantenere le sue tradizioni e le sue radici dovendo apparire “occidentalizzato” per trovare lavoro. Viviamo in una società dove la donna se ha un lavoro “tipicamente” maschile è descritta come una “donna con le palle” o una “donna cazzuta”, come a sotto intendere che una donna comune non avrebbe mai la forza e le capacità per svolgere quel tipo di lavoro.

È forse ovvio che in una società del genere il genitore desideri un curriculum perfetto per il proprio figlio, rispecchiando così la superficialità delle ambizioni sociali.

Riguardo questa superficialità del genitore medio mi torna in mente un dialogo all’interno del film La grande bellezza in cui Jep, il protagonista, spiega durante una serata con gli amici a una tipica donna benestante, come tutte le sue sicurezze e la sua ostentazione nel mostrare come essa sia madre e donna, non siano altro che delle menzogne che nascondono le fragilità e le debolezze di una donna che ha lavorato non grazie alle sue capacità, ma grazie al rapporto col suo amante. Di una “donna con le palle” che si vanta di crescere con fierezza e con sacrificio i suoi figli, ma che passa la maggior parte del tempo a lavoro, fuori casa e in lunghe vacanze, affidando le cure dei suoi figli alle tante babysitter, ai camerieri e agli autisti, rivelando così una vita di bugie dove l’unico rimedio è accettare i propri sbagli.

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