di Camilla Albore

Famiglie separate, sogni spezzati e libertà negate.

Ci troviamo a Roma nel 1939. Le leggi razziali sono in vigore da ormai un anno e Gianni Polgar, insieme alla sua famiglia, si è appena trasferito a Roma, dopo che il padre aveva perso il suo lavoro di avvocato, non potendone più esercitare la professione.

“Avevo appena tre anni e non comprendevo a pieno ciò che stava accadendo intorno a me. I bambini hanno una diversa percezione della realtà, filtrata dalla loro purezza e innocenza”, ci racconta, mentre la mente vaga tra i lontani ricordi della sua infanzia. “In me coesistono due identità”, continua esordendo con fierezza, “una è quella italiana e poi c’è quella ebraica. Esse non si scontrano tra loro, anzi convivono pacificamente, completandosi e arricchendosi a vicenda.” Eppure era proprio quell’identità ebraica che completava la sua persona a privarlo delle sue libertà individuali, costringendolo dunque a nascondere quella sua parte identitaria. Forse è proprio questa la vera tragedia della Shoah: strappare alle persone ciò che le rende tali, pezzo dopo pezzo, prima la propria identità, poi la propria dignità di uomo fino a non sapere nemmeno se si ha un nome, se si è uomini o esseri disumani. Proprio da qui nasce probabilmente questo suo disprezzo per la parola “diverso”. “Il concetto di diverso non esiste. Siamo tutti uguali, ma soprattutto tutti umani. Sempre”

Gianni Polgar, discutendo con noi studenti in occasione della Giornata della Memoria, ha voluto evidenziare, inoltre, che c’è anche chi si è distinto al fine di opporsi alle atrocità che stavano avvenendo. “Sono eroi. È grazie a loro che mi sono salvato e non sono finito nei campi di concentramento.” Ricorda con gli occhi velati da un’estrema gratitudine. Proprio nell’ottobre del 1943, infatti, è stato ospitato nel Collegio di San Giuseppe, vicino a Piazza di Spagna. Lì ha dovuto cambiare nome e, ogni volta che la mamma veniva a trovarlo, gli era stato impedito di abbracciarla dovendo fingere che fosse una lontana zia.

“Quelle esperienze con il passare degli anni sono diventate ferite,” ci ha confessato. “Il tempo le ha rimarginate ma le cicatrici sono ancora lì presenti, impresse nel cuore e nella mente.”

La sua speranza è quella che, attraverso la trasmissione della memoria, ciò non capiti più, perché, come dice Primo Levi “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *