Di Isabella Gatti

Il 21 novembre 1911 Pascoli pronuncia un discorso volto ad esaltare la spedizione coloniale in Libia.  Il testo, pubblicato il 27 novembre su “La tribuna”, è intitolato “La grande proletaria si è mossa”.

Per poter comprendere a fondo i motivi che spinsero il poeta “delle piccole cose” a tenere questo discorso è opportuno analizzare la sua ideologia politica. 

Durante gli anni universitari il giovane Pascoli subì l’influenza delle ideologie anarchico-socialiste, soprattutto per il fascino suscitato da Andrea Costa, agitatore attivo proprio in Emilia-Romagna. Infatti, l’adesione all’anarchismo e al socialismo era un fenomeno diffuso tra gli intellettuali piccolo borghesi del tempo -si pensi a Gabriele D’Annunzio-.

Le proteste e le insofferenze che si andavano diffondendo in quegli anni avevano una matrice culturale, risalente al clima Romantico che aveva a lungo influenzato la nostra penisola; ma avevano anche delle più concrete motivazioni sociali, come l’inquietudine di un gruppo che si sentiva minacciato nella sua identità dall’avanzata della civiltà moderna industrializzata, la quale minava il prestigio di una cultura umanistica e classicista, privilegiando nuovi saperi: quelli scientifici e tecnologici.

Il giovane Pascoli, inoltre, risentiva anche della declassazione a cui il ceto medio era sottoposto, giustificata dalla nuova organizzazione sociale basata sulla produzione, processo che colpiva particolarmente gli intellettuali. Giovanni Pascoli proveniva infatti dalla piccola borghesia rurale, declassato e impoverito, trasformava in rabbia contro la società l’emarginazione di cui era vittima.

Inoltre, abbiamo potuto analizzare in diverse poesie, in particolare in Colloquio, come il poeta sentisse gravare su di sé il peso di una serie di ingiustizie inanellate: l’uccisione del padre, la dissoluzione del nido familiare, i lutti familiari: tutto ciò contribuì a far crescere nel cuore del giovane Giovanni un desiderio di lotta contro un meccanismo sociale perverso. Dunque, aderì all’Internazionale socialista.

Tuttavia, ne La grande proletaria si è mossa non troviamo un Pascoli socialista: infatti, il poeta, abbandonò presto il movimento anarchico-socialista – anche a seguito di diversi mesi passati in carcere per una manifestazione antigovernativa. Pascoli, però, non rinnegò del tutto gli ideali socialisti, ma, rifiutando la “gelida” dottrina marxista, li trasformò in una generica fede umanitaria: socialismo per lui voleva dire impegno per alleviare le sofferenze degli infelici e le miserie dei poveri, un appello alla diffusione della pace. Ed è proprio questo principio alla base de La grande proletaria si è mossa.

Per comprendere fino in fondo il messaggio del discorso, bisogna però ricordare che il fondamento dell’ideologia di Pascoli è la celebrazione del nucleo famigliare, di un geloso “nido” chiuso ed esclusivo, che in una visione di più ampio respiro, ingloba l’intera nazione. 

Ed ecco che nascono le ideologie nazionaliste di Pascoli, radicate in questo terreno intimo e privato. Infatti Pascoli vive il fenomeno dell’emigrazione italiana come un dramma: l’italiano che è costretto a lasciare la propria patria è come colui che è strappato dal nido, dove ci sono le radici più profonde del suo essere. Questo inumano sradicamento degli italiani, induce Pascoli a far proprio il concetto del nazionalismo italiano primo novecentesco: esistono nazioni ricche e potenti, “capitaliste” e nazioni “proletarie”, povere e deboli, come l’Italia, che, non riuscendo a sfamare i propri figli, si vede costretta a farli emigrare. Ebbene, le nazioni “proletarie” hanno il diritto di cercare la soddisfazione dei loro bisogni anche con la forza: Pascoli arriva dunque ad ammettere la legittimità delle guerre condotte dalle nazioni proletarie per le conquiste coloniali, in modo da dar terra e lavoro ai loro figli più poveri. 

Sulla base di questi principi, nel 1911 Pascoli celebra la guerra di Libia come un momento di riscatto della nazione italiana, che trova in essa la sua coesione spirituale, completando il processo risorgimentale, dando una coscienza nazionale agli italiani e attribuendo loro dignità civile attraverso il possesso della terra. 

Infatti, dopo l’unità, l’Italia aveva bisogno di una legittimazione del suo governo in Europa, soprattutto dopo le cocenti sconfitte subite in ambito coloniale da Crispi.

Giolitti, tuttavia, sapeva di dover agire con cautela. In primis, glielo imponeva il timore di una nuova Adua: infatti, se la ripresa dell’avventura coloniale italiana si fosse rivelata fallimentare, la sua posizione politica ne sarebbe risultata fortemente indebolita; oltretutto Giolitti era ostile alla politica dei nazionalisti, di cui temeva idee e comportamenti. 

Pascoli, inserendosi in questo dibattito sull’opportunità di entrare in guerra, si mostrò sorprendentemente favorevole, esprimendosi in prima persona con La grande proletaria si è mossa.

Già dal titolo si nota un forte ossimoro: la coppia di termini che Pascoli associa alla nostra penisola rimanda chiaramente al lessico socialista. Infatti, ricicla il linguaggio tipico del socialismo e lo rielabora in una chiave nazionalistica, facendo leva sull’onore italiano che doveva essere riscattato e non permettere più che l’Italia venisse descritta come “una semplice espressione geografica”.

L’Italia, infatti, ancora non era considerata alla pari delle altre potenze europee poiché, rispetto ad esse, raggiunse l’unificazione più tardi. Inoltre all’unità politica non corrispondeva una unità identitaria. Celebre, infatti, è la frase pronunciata da Massimo D’Azeglio “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. 

Dunque, per Pascoli, la guerra in Libia rappresenta un’opportunità per oltrepassare le differenze geografiche e per riunire gli italiani da un punto di vista ideologico: tutti sono chiamati a combattere per un’impresa comune, uscendo così da quel provincialismo che aveva caratterizzato l’Italia fino a quel momento. 

Il discorso di Pascoli ebbe così tanto successo che venne diffuso e fatto studiare nelle scuole: tutti i figli d’Italia dovevano essere ferventi sostenitori della legittimità della guerra di Libia. 

Infatti, la spinta in favore della guerra era troppo forte. Anche la situazione internazionale spingeva nella direzione di un intervento: quando, al termine della seconda crisi marocchina, fu riconosciuto alla Francia il diritto di occupare il Marocco, il governo italiano ruppe gli indugi e si apprestò a conquistare la Libia. 

Come detto, Pascoli percepisce l’emigrazione degli italiani come un dramma, come si evince dall’incipit del suo discorso: 

Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre Alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar  terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare  culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare  tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora:  ad aprire vie nell’inaccessibile, a costruire città, dove era la selva vergine, a piantar  pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada.”

Addirittura, “erano diventati un po’ come i negri, in America, questi connazionali di colui che la scoprì; e come i negri ogni tanto erano messi fuori della legge e della umanità, si linciavano.”

Si noti ovviamente il razzismo di Pascoli che, per sottolineare le condizioni indignitose in cui gli italiani erano costretti a vivere li paragona ai negri in America, evidenziando, però, come a scoprire il Nuovo Continente fosse stato proprio l’italiano Cristoforo Colombo. 

Si può ovviare a questa situazione. C’è una soluzione per Pascoli: la conquista della Libia.

“Ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro: una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole isole nostre; verso la quale si protende impaziente la nostra isola grande; una vasta regione che già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d’acque e di messi, e verdeggiante d’alberi e giardini; e ora, da un pezzo, per l’inerzia di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parte un  deserto.

Là i lavoratori saranno, non l’opre, mal pagate mal pregiate mal nomate, degli stranieri, ma, nel senso più alto e forte delle parole, agricoltori sul suo, sul terreno della patria; non dovranno, il nome della patria, a forza, abiurarlo, ma apriranno vie, coltiveranno terre, deriveranno acque, costruiranno case, faranno porti, sempre vedendo in alto agitato dall’immenso palpito del mare nostro il nostro tricolore.

[…]

Troveranno, come in patria, ogni tratto le vestigia dei grandi antenati. Anche là è Roma.

SI: Romani. SI: fare e soffrire da forti.”

È evidente, dunque, la voglia dell’Italia di tornare ad essere grande come l’Impero Romano: anche la Libia è Roma. E poi si arriva alla chiave per comprendere questo pensiero interventista di Pascoli: 

“E sopra tutto ai popoli che non usano se non la forza, imporre, come non si può fare altrimenti, mediante la guerra, la pace”

Pascoli, infatti, parte dalla condizione degli italiani nei primi anni del Novecento e crea un confronto con le loro origini illustri, romane. E, dal momento che i romani si erano dimostrati superiori con l’uso della forza, imponendo la pace mediante la guerra, così faranno anche gli italiani. 

Potrebbe stupire che un poeta pessimista come Pascoli concentrato sul dolore e sulla sofferenza dell’uomo possa esprimersi in favore di una guerra; eppure, Pascoli era sinceramente convinto che la guerra in Libia fosse l’unico modo per far tornare in auge i nobili valori che avevano animato il Risorgimento italiano e riscattare la dignità dei suoi concittadini. Ma non solo: come evidenziato dall’ultima frase del discorso riportata, Pascoli crede nella guerra civilizzatrice. Per i popoli barbari, inclusi gli africani, è necessario ricorrere alla guerra, anche a costo della violenza. Così facendo, l’Italia aiuta anche i cosiddetti popoli inferiori; infatti, poco più avanti Pascoli definisce la guerra un diritto e un dovere per l’Italia: 

“si è presentata a suo dovere di contribuire all’umanamento e incivilimento dei popoli, al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei mari”

Torna il concetto di civilizzare la terra che si conquista, “umanizzarla”, addirittura. Infatti, quello che gli Italiani stanno compiendo – la guerra ebbe inizio il 28 settembre 1911– non deve essere vissuto come un attacco, ma al contrario, come una liberazione.

Da un punto di vista stilistico, il discorso emana una forte vis retorica, ottenuta anche dal pathos espresso dalle parole di Pascoli, che non disdegna il corso agli anacoluti. Inoltre, si ravvisano forme di linguaggio popolare, tipiche della lingua parlata. 

Pascoli indossa quasi le vesti di un novello Dante, un poeta che si mette al servizio dell’ideologia politica per la collettività, rimanendo comprensibile per tutte le classi sociali.

Importante è anche la conclusione, caratterizzata da un tono altisonante, con cui il poeta elogia tutti i giovani caduti in battaglia:

“Benedetti, o morti per la Patria! Voi non sapete che cosa siete per noi e per la Storia! Non sapete che cosa vi debba l’Italia! L’Italia, cinquant’anni or sono, era fatta. Nel sacro cinquantennario voi avete provato, ciò che era voto de’ nostri grandi che non speravano si avesse da avverare in così breve tempo, voi avete provato che sono fatti anche gl’italiani.”

Infatti, per difendere la Libia, l’esercito ottomano scelse di evitare scontri campali, in cui probabilmente sarebbe stato sconfitto dall’esercito italiano, e puntò tutto sulla guerriglia. Ciò rese il conflitto più impegnativo del previsto e solo dopo più di un anno, col sacrificio di migliaia di soldati italiani, l’Italia ottenne la vittoria. 

Così, il 18 ottobre 1912 fu sottoscritta la pace di Losanna: in base a questo accordo agli italiani sarebbe spettata la sovranità sulla Libia e il possesso temporaneo del Dodecaneso, un arcipelago di isole greche situato sull’Egeo orientale, che durante il conflitto era stato occupato per ragioni strategiche. 

A guerra conclusa, la Libia venne riorganizzata in due colonie, la Tripolitania e la Cirenaica. L’immigrazione dei lavoratori italiani fu incoraggiata e col passare del tempo ci si poté quasi illudere che la costa libica fosse diventata parte dell’Italia.

È importante ricordare che la popolazione araba dell’entroterra non accettò mai l’invasione, per di più per mano di colonizzatori non musulmani; patriottismo e religione animarono un vigoroso movimento di resistenza popolare, che non fu mai veramente domato. Nella lotta contro la guerriglia libica, le truppe italiane commisero numerose atrocità, a dispetto della propaganda ufficiale e anche delle forti parole di Pascoli, che sostenevano che il colonialismo italiano stesse portando civiltà e benessere alle popolazioni indigene, favorendo un “umanamento”, mancato fino a quel momento. 

Quest’ideologia di guerra civilizzatrice e pacificatrice viene usata tutt’oggi come giustificazione. L’occidente democratico si sente in dovere di esportare il proprio modello di civiltà e convince la popolazione che la guerra possa portare benefici anche a chi viene attaccato.

Dalle parti di discorso che ho selezionato si evince che Pascoli espone tutti i temi della propaganda coloniale: dalla fertilità delle terre libiche, al richiamo simbolico dell’aquila di Roma, dall’esaltazione dell’esercito e della marina, fino al disprezzo per l’arabo. 

Ebbene, il fascismo riprenderà molti dei temi affrontati da Pascoli, dagli elementi romani che nobilitano gli italiani alla giusta e vittoriosa lotta dell’Italia, nazione proletaria da sempre oltraggiata dalle nazioni più ricche, che ora lotta per la conquista di un “posto al sole”.

Oltre all’aquila romana, simbolo recuperato da Mussolini dall’immaginario ideologico romano, immagine per altro che si ritrova anche nel discorso di Pascoli, l’ideologia politica e culturale promossa dal duce riprende anche il motivo del “nostro mare”.

Il 7 settembre 1934, intervenuto a Taranto, Mussolini si rivolse alle camicie nere rievocando le glorie dell’Impero romano. La città pugliese, uno dei più importanti porti militari italiani, era il luogo più adatto in cui rilanciare il ruolo dell’Italia come di una moderna talassocrazia, egemone nel Mediterraneo. La nuova Cartagine, che l’Italia fascista avrebbe dovuto sconfiggere, era la Gran Bretagna. 

“Voi avete l’onore e il privilegio di ospitare nel vostro mare le forze navali dell’Italia fascista. Questo è un privilegio che vi impone particolari doveri. Noi fummo grandi quando dominammo il mare. Roma non poté arrivare all’impero prima di aver schiacciato la potenza marittima di Cartagine. Perché il Mediterraneo – che non è un oceano, e che ha due sbocchi soli, vigilato da altrui – perché il Mediterraneo non sia il carcere che umilia il nostro vigore di vita, bisogna essere pronti domani. E se domani, in questa Europa inquieta e tormentata, che non trova – perché forse non può trovare à, la base del suo necessario assestamento, la grande campana suonerà a martello, è certo che tutto il popolo italiano, dai picchi nevosi delle Alpi alle contrade siciliane e sarde, tutto il popolo italiano risponderà. Sarà pronto a compiere i sacrifici necessari. E ricordatevi – oh camice nere – che se questo sarà, io sarò alla vostra testa!”

[B. Mussolini, Opera omnia]

Venne così ripreso dall’ideologia fascista il motivo del mare nostrum, che ha le sue radici sempre nel desiderio, a tratti ossessivo, dell’affermazione della neo-Italia alla pari delle altre potenze europee, se non addirittura in una posizione superiore. 

Il successo indiscusso che Mussolini ottenne e che fu in grado di mantenere per oltre vent’anni fu dovuto non solo alla dittatura messa in atto, ma anche alla volontà del duce di creare un vero e proprio circolo culturale attorno alla sua figura. Mussolini incaricò il filosofo Giovanni Gentile di redigere il manifesto degli intellettuali fascisti, affinché il regime si radicalizzasse a partire dalle colonne portanti della società. Il manifesto fu pubblicato il 21 aprile 1925; Gentile tenta di giustificare l’avvento violento del fascismo come necessario momento di rottura, in grado di favorire il ritorno agli ideali del Risorgimento, di cui il movimento si ritiene la naturale prosecuzione. Il fascismo si pone come nuova religione eroica, come disciplina di «abnegazione» degli interessi del singolo in favore della gloria della Patria. Vediamo dunque che il manifesto riprende motivi e temi che abbiamo analizzato ne La grande proletaria si è mossa.

Sono molte le figure importanti nel panorama culturale italiano che firmarono il Manifesto, tra questi Luigi Pirandello. La partecipazione al programma ideologico e culturale fascista evidenzia il controverso rapporto tra cultura e potere: molti professori universitari, antifascisti nell’animo, furono costretti ad aderire al programma del duce per proteggere la propria cattedra e salvaguardare la propria vita.

Tuttavia, vi fu anche una minoranza che osò opporsi al regime e che firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce (1 maggio 1925). Tra i firmatari del manifesto antifascista troviamo anche Eugenio Montale, Tullio Levi Civita, Cesare De Lollis, Matilde Serao, nonché Luigi Einaudi (il futuro secondo presidente della Repubblica italiana) solo per citare alcuni dei nomi più noti, 

Il rapporto con il potere è stato da sempre estremamente complicato e spesso alcuni intellettuali si sono ritrovati a ‘servire’ il potere, occupando posizioni apicali o costretti a ricoprire ruoli che cozzavano con la loro ideologia, come nel caso di Seneca, filosofo stoico richiamato a Roma per servire Agrippina ed educare Nerone. Inevitabilmente, l’intellettuale è profondamente influenzato dalla temperie politica in cui vive e finisce egli stesso per influenzare l’ambiente nel quale si trova. Come abbiamo visto a proposito di Pascoli l’intellettuale è determinante per plasmare l’ideologia di un governo. Si pensi all’opera propagandista portata avanti da D’annunzio e dai futuristi, ferventi sostenitori della partecipazione alla Prima guerra mondiale. Del resto, lo sappiamo, le armi pacifiche più potenti sono le parole, e chiunque sappia usarle deve avere la consapevolezza di avere nelle proprie mani uno strumento molto potente e usarlo in modo consapevole.

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