di Maria Maddalena Cuozzo
Nel nostro guardare è il nostro più vero conquistare. Non si diventa ricchi perché qualcosa abita e sfiorisce fra le nostre mani, ma perché tutto scorre attraverso la loro presa come attraverso il solenne portale dell’ingresso e del ritorno a casa. Non una bara debbono essere le nostre mani: solo un letto in cui le cose dormono il crepuscolo del sonno e fanno sogni, dalle cui profondità parlano le loro intimità più care e nascoste. Perché possesso significa povertà e angoscia; solo aver posseduto significa possedere senza paura . Rainer Maria Rilke
“Possesso significa povertà e angoscia; solo aver posseduto significa possedere senza paura”. Queste sono le parole che il poeta tedesco Rainer Maria Rilke usa per indicare in cosa consiste la vera ricchezza. Essa non è un qualcosa di eterno, attorno al quale possiamo stringere le mani talmente forte da far impallidire le nocche, con la paura costante che, se allentassimo la presa anche solo per un istante, essa possa scivolare via. La ricchezza non è materiale, è molto di più. Cercare in modo disperato di aggrapparsi a ciò che di bello abbiamo nella nostra vita paradossalmente produce l’effetto contrario. Più si teme e più si perde. Svegliarsi ogni giorno con la paura di perdere la felicità è quanto più di angosciante possa capitare ad un essere umano. Vivere la vita in bilico tra dubbi e timori non è vivere. Quante volte vi è capitato di pensare: “Le cose stanno andando così bene. Quando è che il mondo mi crollerà addosso? Dove sta la fregatura?”. Così facendo si vive con la guardia sempre alzata, come un animale selvatico che protegge la sua preda, ma non la mangia mai. Avere il possesso di qualcosa vuol dire perciò avere la consapevolezza della sua caducità ed esserne assolutamente terrorizzati.
Aver posseduto invece vuol dire possedere senza paura. Alcune delle persone più felici che io abbia mai conosciuto sono persone che hanno perso tutto. Aver sperimentato la perdita di qualcosa o qualcuno di importante è straziante, ma insegna a non avere paura della precarietà di ogni cosa che ci circonda. Prima ci renderemo conto di quanto le cose belle di questo mondo siano delicate e fragili, prima l’attaccamento morboso ad esse ci sembrerà ridicolo.
Non dico che ogni cosa sia per forza destinata a morire e che dobbiamo perciò vivere con un freddo distacco da tutto, poiché credo che questa sia una visione abbastanza pessimistica della vita e francamente anche un po’ sballata. Ciò che voglio dire è che la felicità è costituita da alti e bassi che la rendono così fondamentale. Attaccarsi ai momenti belli con la pretesa che essi durino per sempre è un errore che ho visto divorare molte persone.
Personalmente faccio molta fatica a regolare i periodi di alti e bassi, ma credo che occorra sempre trovare il meglio nelle cose e ho imparato ad apprezzare i momenti in cui la vita mi sembra bellissima. Non credo sia possibile apprezzare pienamente ciò che la vita ci offre senza essere consapevoli che tutto è mutabile. Tante volte quando mi sono sentita inebriata, delle volte ubriaca di felicità, mi sono spaventata, intimorita dalla domanda “Quanto durerà ancora tutto questo prima che la negatività prenda di nuovo il sopravvento?”, ma con il tempo ho imparato a lasciarmi il permesso di essere felice, proprio sapendo che la felicità è instabile. A questo fa riferimento Rilke quando invita a “possedere senza paura”: essere spensierati, poiché si impara ad essere grati delle cose belle, non schiavi.
Ultimamente mi è capitato di leggere delle sue opere come i “Sonetti a Orfeo” e “Lettere a un giovane poeta”, una raccolta epistolare indirizzata a Franz Xavier Kappus, per l’appunto un giovane poeta che aveva richiesto a Rilke dei consigli riguardo la scrittura. Proprio di quest’ultima opera mi è rimasta impressa una lettera che credo si ricolleghi un po’ a questa riflessione. Nella lettera Rilke afferma che se la nostra vita quotidiana ci sembra povera non è colpa della vita stessa, ma nostra che non siamo abbastanza poeti da evocarne la ricchezza. Nella lettera in questione poi Rilke fa trapelare la sua idea di ricchezza, che si rivelano essere i ricordi dell’infanzia e le sensazioni del passato. È quasi come se il poeta ci stesse ricordando che ogni giorno, che noi diamo per scontato ,ad altri è stato negato. Nonostante questo però, continuiamo ad affrontare le giornate con timore, anticipandone lo stress e la fatica. Rilke ci esorta così ad essere consapevoli della ricchezza che ci circonda. Penso che questo sia importante, poiché i ricordi ci rammentano del passato e di quanto dovremmo essere grati per il fatto che ci è stato concesso un nuovo giorno per formarne di altri.
Nei “Sonetti a Orfeo” invece traspare chiaramente il senso di caducità che Rilke prova, considerando il fatto che l’opera funge da monumento funebre per un’amica della famiglia Rilke, Wera Ouckama Knoop, giovane ballerina estremamente dotata per le arti e morta a soli 19 anni a causa di una rara forma di leucemia. Credo che questa conoscenza ci offra un’interessante chiave di lettura della riflessione da cui siamo partiti. Quando il poeta sostiene che le nostre mani non devono essere una bara, ma un letto in cui le cose dormono e sognano rivelando le loro intimità celate nel profondo, mi sembra che ci sia un doppio significato. Se da un lato non dobbiamo trattenere i beni materiali e soffocarli affinché restino con noi, dall’altro non dobbiamo neanche mettere in un cassetto i nostri ricordi e le nostre emozioni, ma lasciare che essi abbiano la possibilità di essere liberi di farci provare qualcosa, non importa se negativa o positiva. È perciò importante lasciare che ognuno sia libero di esistere e basta, senza sentire il bisogno di inseguire freneticamente la felicità, le cose materiali, la ricchezza, ma bisogna lasciare che la vita accada. La vera ricchezza non è ciò che abbiamo, che proviamo a tenere stretto facendoci del male, ma è ciò che la vita ci offre e ci toglie insegnandoci a vivere.
Esiste davvero il tempo, il devastatore?
Quando, sul monte immobile, spezzerà la fortezza?
Questo cuore, immortalmente appartenente agli dei,
quando verrà violato dal Demiurgo?
Siamo davvero così paurosamente fragili,
come il destino vuole farci credere?
L’infanzia, profonda e promettente, nelle radici
Diviene davvero silenziosa poi?
Ah, il fantasma dell’effimero,
attraversa come se fosse fumo
Chi l’accoglie ingenuamente in sé
Nonostante ciò che siamo, noi vagabondi,
per le forze permanenti
ancora siamo un bisogno divino
Rainer Maria Rilke, Sonetti a Orfeo (traduzione dal tedesco di Maria Maddalena Cuozzo)