di Alessandra Troianiello
Il modello narrativo è e rimane un’utile ed efficace tecnica di comunicazione. La narrazione rappresenta infatti una necessità per il nostro cervello, poiché ci rende coscienti della realtà che ci circonda e ci unisce intorno a valori comuni, ricordandoci che noi apparteniamo a una comunità. La narrazione, per essere tale deve possedere alcuni elementi di base ovvero i personaggi e un insieme di rapporti che li connetta ad un contesto culturale, sociale e storico, affinché possa stabilirsi un paragone con il mondo contemporaneo. Esistono anche contro circuiti e narrazioni di senso inverso, che prendono nome di contro-narrazioni. Quest’ultima è una narrazione a breve termine, che nasce come riposta diretta o immediata a un discorso specifico, o narrazione, d’odio. Le narrazioni d’odio, sono racconti con i quali, tramite espressioni d’intolleranza rivolte verso le minoranze, viene espresso appunto l’odio.
Ci siamo chiesti allora dove possiamo ritrovare le narrazioni d’odio e le contro-narrazioni nella vita quotidiana e la risposta è: intorno a noi!
Un esempio di contro-narrazione efficace è il cosiddetto “counter messaging”: un messaggio breve e rapido per contrastare una narrazione e quindi l’interpretazione di un evento, giocando sul rovesciamento prospettico attraverso una ripresa ironica o di segno opposto al contenuto del messaggio iniziale.
Prendiamo come riferimento quello attuato da “Words are Stones” (WaS), un progetto ideato da giovani di tutta Europa per contrastare l’hate speeching in tutte le sue manifestazioni: online, nei discorsi, slogan o murales. Nel caso dei graffiti, gli attivisti di WaS cambiano o aggiungono lettere o parole, in maniera ironica, per modificare il significato della frase o della parola di odio.
Per esempio la scritta murale “Kill gays” è diventata “KILLSS GAYS”, così come “Eat the rich” è diventata “Meet the rich.” L’obiettivo generale del progetto è combattere il razzismo e la discriminazione in tutte le sue espressioni. Anche in Italia, a Verona, l’artista CIBO è da anni in prima linea nella lotta contro il razzismo e i pregiudizi in generale: la sua arma consiste nel ricoprire con opere di urban art a tema culinario i messaggi d’odio rinvenuti sui muri della sua città, e ha partecipato al progetto europeo N.E.O.N. (Not Excluded from our Neigborhood) per far sparire graffiti di odio sui muri di Torino. Si può anche dare vita a campagne, come quella promossa in Germania dal movimento “No Hate Speech” sul canale Youtube, che ridicolizza le narrazioni d’odio giocando sulle loro insofferenze, come l’islamofobia, l’omofobia e il razzismo.
Dobbiamo però riconoscere che gli atti d’odio rappresentano un fenomeno esteso e si possono trovare non solo sui muri delle nostre città, ma anche in situazioni quotidiane. Prima abbiamo citato le caratteristiche base delle narrazioni, parlando dei personaggi. Soffermiamoci allora sulle figure ricorrenti nelle narrazioni d’odio.
Il soggetto tradizionalmente responsabile delle situazioni d’odio è l’hater.
L’hater è l’odiatore, colui che compie atti violenti o usa parole piene di avversione nei confronti di un’altra persona, discriminandola in base alla razza, etnia, religione, genere o orientamento sessuale, disabilità, eccetera.
Uno studio effettuato nel 2002 da Jack McDevitt, Jack Levin e Susan Bennet intitolato Hate Crime Offenders: An Expanded Typology, basandosi sui rapporti della polizia di Boston, ha individuato quattro tipologie di hate crime offenders:
- i “thrill offenders”, che sono coloro che commettono crimini solo per l’eccitazione o il brivido (thrill) di farlo;
- gli “offensivi difensivi” che sono quelli che dicono di agire per difendersi da eventuali aggressioni e quindi per prevenire gli attacchi altrui;
- i “mission offenders” sono i criminali che ritengono di avere “una missione”, quella di liberare il mondo da persone o gruppi che considerano inferiori;
- i “colpevoli per ritorsione”, che sono quelli che commettono hate crime o hate speech in risposta a presunti abusi, commessi dalla vittima.
Questa classificazione però non è completa, ma va arricchita con la considerazione delle nuove sfaccettature che la figura dell’odiatore ha acquisito nel tempo, soprattutto a seguito della diffusione dei social media e della comunicazione online.
Gli on-line haters, ovvero quelli che aggrediscono sul web, si nascondono dietro uno schermo e perciò di loro non si sa molto. Sono quindi figure celate da Internet, che approfittano anche del fatto che nessuno conosca la loro identità. Si può ipotizzare che abbiano comportamenti simili a quelli riscontrati nelle altre classificazioni di hater: frustrazione, senso di inadeguatezza, per cui imitano un comportamento aggressivo già riscontrato negli altri.
L’hater non è il solo responsabile degli atti d’odio: accanto a lui c’è il follower, colui che segue l’atto di odio e di bullismo in modo passivo senza intervenire. Questo atteggiamento passivo però non è privo di conseguenze, ma ferisce così come quello dell’aggressore.
È una figura subdola, che manipola la vittima facendogli credere che non stia facendo nulla di male nei suoi confronti, quando invece diventa colpevole, proprio nel momento in cui decide di non prendere le difese del proprio amico davanti all’hater.
La figura del follower ci permette una riflessione: non è l’odio il contrario dell’amore, ma l’indifferenza. Assistere all’offesa di una persona, vedere chi soffre per gli insulti ricevuti e non fare nulla, mette sullo stesso piano l’offensore e l’osservatore. L’indifferenza sa ferire il cuore e l’anima, molto più di ogni altra parola e atteggiamento, perché è come se chi viene ferito non esistesse più, non avesse alcun valore. Per questo, prevenire gli hate crime è un lavoro complesso, come complesse sono le conseguenze per le vittime.
Le parole sono un’arma a doppio taglio e le vittime lo sanno bene. Possono quindi, da un lato, aiutarci a comunicare e a creare rapporti con gli altri, ma, dall’altro, possono anche risultare ostili e ferire nel profondo, provocando diversi tipi di danni psicologici.
L’odio non dovrebbe far parte del nostro essere perché può portare a decisioni impulsive che determinano conseguenze complesse, come la chiusura di relazioni essenziali per noi o addirittura l’implosione in sé stessi. L’unica soluzione per uscire da questa condizione di chiusura è il confronto, ovvero la parola, perché rappresenta il solo ponte che ci possa mettere in comunicazione con gli altri. Riuscire a parlare con gli altri è un processo profondo e complesso che porta al cambiamento ma è possibile solo attraverso l’ascolto dell’altro.
Il silenzio infatti è una mancata denuncia. Il silenzio delle vittime è dovuto alla paura di essere presi ancor più di mira. Tale forma di silenzio è chiamata under-reporting, appunto la mancata denuncia che non può neppure finire nelle statistiche, e che spesso è dovuto alla paura di avere sempre più persone contro. Inoltre la giurisprudenza statunitense chiama il silenzio che la vittima non sceglie, silencing, ovvero silenziamento, intendendo con questa definizione la negazione di diritti costituzionali della pari dignità e dell’eguaglianza, negazione che avviene nella maggior parte dei casi contro le donne, gli immigrati o comunque contro soggetti appartenenti a delle minoranze.
La critica offensiva fino all’ostilità sine ratio sono espressioni del nostro giudizio ovvero pre-giudizio, soprattutto laddove si esprima senza neppure conoscere la persona e ci conduce a ferire l’altro in modo gratuito.
La vita è decisamente troppo breve per trascorrerla a odiare. Piuttosto concentriamoci ad amare il prossimo “altro”!