di Veronica Angelini
Quando assistiamo a un discorso d’odio, dobbiamo osservare (o meglio individuare) che oltre alle parole si utilizzano dei meccanismi semanticamente connotati volti a creare un hate speech. Quindi oltre agli insulti espliciti, è possibile osservare dei processi adoperati per suscitare odio.
Quali sono questi meccanismi? Esistono anche delle figure retoriche che ci aiutino a comprendere un hate speech?
Lo stereotipo, ovvero l’opinione costruita su una persona o una cosa senza conoscerla, è più efficace quando si appoggia su una vera e propria strategia discorsiva, identificata come othering. Si tratta di un insieme di dinamiche e strutture spesso di tipo linguistico, che raggruppano i soggetti in “loro” e “noi”. Una dicotomia cognitiva in cui vengono messi in atto processi di inclusione, di esclusione e di marginalizzazione che si basano su differenze di genere, religione, etnia, status economico e sociale, ma anche su una possibile malformazione o una difformità fisica o mentale. Tali processi inoltre riguardano l’asse morale giusto-sbagliato, umano-non umano, buono-cattivo[1].
Sul piano linguistico l’othering si caratterizza per l’uso di:
- aggettivi o pronomi dimostrativi, come “questi”, “quelli”,ecc.;
- aggettivi e pronomi personali, come “noi”, “voi” e “loro”, ma anche “nostro” e “vostro”.
La presenza di tali aggettivi e pronomi, ovviamente, non basta a indicare un discorso d’odio. Però l’enfatizzazione di essi, con uso di sostantivi e verbi adeguati, può creare una polarizzazione funzionale all’individuazione di un bersaglio.
Ho citato il “noi vs loro”[2], ma specifico meglio il significato e il valore che assumono le figure del “loro” e del “noi”.
Con “loro” si indica un gruppo, spesso visto come una minaccia, e che quindi genera sia un’autodifesa da parte del noi, sia il blocco dell’empatia[3] (intesa come la capacità di porsi in maniera immediata e diretta nello stato d’animo di un’altra persona) verso gli altri, individuati come loro. Il “noi” invece è rappresentato come una vittima che cerca protezione, o, come un’entità minacciata che deve difendersi.
Interessante inoltre, è osservare come spesso il valore di “noi” o di “nostro” non è dichiarato ma implicito.
Per capire meglio questo meccanismo, leggiamo attentamente un post pubblicato da Matteo Salvini sulla sua pagina Facebook nel 2018 e analizzato da Orlando Paris[4].
“Immigrato nigeriano, permesso di soggiorno scaduto, spacciatore di droga. È
questa la “risorsa” fermata per l’omicidio di una povera ragazza di 18 anni, tagliata
a pezzi e abbandonata per strada. Cosa ci faceva ancora in Italia questo VERME?
Non scappava dalla guerra, la guerra ce l’ha portata in Italia. La sinistra ha le mani
sporche di sangue. Espulsioni, espulsioni, controlli e ancora espulsioni! La Boldrini
mi accuserà di razzismo? La razzista (con gli italiani) è lei.
#stopimmigrazione”.
Il “noi” come ci spiega Paris si articola intorno a pronomi e sostantivi dal forte valore identitario e legalitario come “ce (l’ha)”, “mi (accuserà)”, “(con) gli italiani”, e ad aggettivi come “povera”, “abbandonata”, che enfatizzano la figura della vittima. Il “loro”, invece, si forma intorno a sostantivi come “immigrato”, “spacciatore” e a sintagmi come “(la guerra) ce l’ha portata”.
Interessante è osservare come spesso il valore di “noi” o di “nostro” non è dichiarato ma implicito. Per esempio, durante l’analisi di alcuni dati raccolti per il Barometro dell’odio. Elezioni europee (2019), si nota che l’aggettivo “nostro” era persuasivo, in occorrenza con sostantivi come “compito”, “dovere”, “capitano” e altri esempi. Inoltre il concetto di “nostro” può avere anche un valore positivo, soprattutto in campo sovranista, come se la costruzione del “noi” e di un soggetto plurale forte e fortemente identitario fosse data per acquisita.
La polarizzazione del “noi vs loro”, dunque si può tradurre come la strategia di perspectivation che, chi scrive o parla, usa per posizionare se stesso rispetto agli altri (spesso paragonando il proprio discorso con quello degli altri) e per fornire la propria interpretazione di fatti e opinioni altrui.
In breve, è l’espressione che indica la vicinanza o la lontananza del proprio punto di vista rispetto ad avvenimenti discriminatori che accadono. Questo può avvenire riportando il discorso degli aggressori con citazioni, sia per enfatizzarlo, sia per minimizzarlo. Molto spesso serve anche per mettere in dubbio il discorso delle vittime.
Per spiegare questa strategia, usiamo un luogo per molti quotidiano, in cui avremo due personaggi, Sara (una signora di pelle bianca) e Marta (una signora di pelle scura). La situazione in questione è un viaggio sull’autobus, per tornare a caso dopo una lunga giornata di lavoro. Marta si siede vicino a Sara. Quest’ultima, infastidita comincia a sbuffare e a borbottare. Marta, a questo punto, si alza e si siede in un altro posto. Se qualcuno avesse chiesto il motivo del comportamento a Sara, usando laperspectivation, probabilmente avrebbe detto “Ma che razzismo, ma mi dà fastidio che lei stia seduta vicino a me”.
Gli aggressori usano spesso eufemismi come “Ma che razzismo, è stato solo un diverbio…”. In tal senso, è molto usata una figura retorica, ovvero la preterizione. Questo nome viene dal latino tardo “praeteritio”, derivato di praeterire, che significa “omettere, tralasciare qualcosa”. Nel caso dell’hate speech, si può tradurre nell’espressione “Non sono razzista, ma…” e, ovviamente, al posto di “razzista” si possono mettere altri nomi o locuzione come “Non sono contro la parità dei generi, ma …”, oppure “Non sono omofobo, ma …”, e così via.
In tal senso i tropi, in virtù del loro potere connotativo, sono espressioni che dal loro contenuto originario vengono dirette “a rivestire un altro contenuto”. Esse risultano diffusamente adoperate nell’hate speech. E allora noi tutti dovremmo prestare una maggiore attenzione a quei discorsi che, apparentemente neutri, nascondono messaggi subliminali di conflitto, contrasto e odio.
[1] Per ulteriore approfondimento si rimanda all’opera di John Powell, The Guardian, 2016. In particolare il capitolo “Us vs them: the sinister techniques of “Othering”- and how to avoid them”.
[2] Tra i molti studi si cita Mina Cikara, Effects of intergroup threat on mind, brain, and behaviour, 2013
[3] Sul concetto di empatia cfr. D. Goleman Intelligenza emotiva, Bur, 2013. Sui blocchi dell’empatia, M. B. Rosenberg, Le parole sono finestre oppure muri, Esserci edizioni, 2003.
[4] O. Paris, I discorsi dell’odio. Razzismo e retoriche xenofobe sui social network, Carocci, 2019