di Matilde Caliendo, II A
Antigone è una figura che si ribella fino all’annullamento di sé mettendo in discussione la verità assoluta delle leggi umane. Lei è l’emblema della giustizia e la sua forza risiede proprio nella determinazione a mantenere salde le proprie idee e convinzioni pur consapevole di pagare con la vita. Antigone, al di là del mito ritrova corpo in tutte le figure di donne moderne che combattono per un’ideale, quello della giustizia. La ritroviamo nella figura di Greta Thunberg, in quella di Carola Rachete e nelle donne iraniane, quelle dai capelli lunghi che cantano “bella ciao” e questa immagine rievoca immediatamente la tragica fine di Mahsa Amini, uccisa a 22 anni perché indossava male il velo.
Attraverso una lettura critica dell’Antigone di Sofocle si giunge ad un concetto più ampio, identificato nella forza delle idee.
Per esternare un’idea bisogna necessariamente utilizzare la parola ma quando ci si esprime inevitabilmente è coinvolto anche il corpo che genera a volte contatti costruttivi e positivi, a volte distruttivi come ad esempio le torture. Questo concetto si ritrova nella poesia torture di WISŁAWA SZYMBORSKA, poetessa di Cracovia scomparsa nel 2012, famosa dopo il Premio Nobel assegnatole nel 1996.
WISŁAWA SZYMBORSKA
TORTURE
Nulla è cambiato.
Il corpo prova dolore,
deve mangiare e respirare e dormire,
ha la pelle sottile, e subito sotto – sangue,
ha una buona scorta di denti e di unghie,
le ossa fragili, le giunture stirabili.
Nelle torture, di tutto ciò si tiene conto.
Nulla è cambiato.
Il corpo trema, come tremava
prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c’erano, e ci sono, solo la Terra è più piccola
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.
Nulla è cambiato.
C’è soltanto più gente,
alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove,
reali, fittizie, temporanee e inesistenti,
ma il grido con cui il corpo ne risponde
era, è e sarà un grido di innocenza,
secondo un registro e una scala eterni.
Nulla è cambiato.
Tranne forse i modi, le cerimonie, le danze.
Il gesto delle mani che proteggono il capo
è rimasto però lo stesso,
il corpo si torce, si dimena e si divincola,
fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,
illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.
Nulla è cambiato.
Tranne il corso dei fiumi,
la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.
Tra questi paesaggi l’animula vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a se stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza,
mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è
e non trova riparo.
(Traduzione: Pietro Marchesani)
Questa considerazione sui corpi ci porta ad analizzare la tragedia di Sofocle, l’Antigone, rappresentata per la prima volta ad Atene durante le Grandi Dionisie nel 442 a.c. L’opera appartiene al ciclo di drammi tebani ispirati alla drammatica sorte di Edipo, re di Tebe, e dei suoi discendenti. È ambientata in primavera nel periodo delle campagne militari, quando avviene uno scontro tra due eserciti in cui i due fratelli di Antigone, Eteocle e Polinice, si danno reciprocamente la morte.
Le vicende si sviluppano intorno alla sepoltura di Polinice, voluta ad ogni costo da Antigone contro il decreto di Creonte che condanna i traditori della patria negandogli la sepoltura.
Pertanto, il tema dei corpi emerge come centrale nella tragedia, contrapponendo un corpo “che c’è”, quello di Antigone, a uno che “non c’è più”, quello del fratello Polinice. La ragazza si ferma davanti al corpo morto del fratello lasciato in pasto ad avvoltoi e cani: disobbedendo al decreto di Creonte lei lo seppellisce ricoprendolo con la terra. La lotta di Antigone comincia qui.
Lei è figlia di Edipo, re di Tebe, la cui stirpe è nata maledetta. Lui riceve in eredità dal padre una maledizione: uccise il padre Laio e giacque con la madre Giocasta; da questa unione nacquero quattro figli, Antigone, Ismene, Eteocle e Polinice. Un’altra maledizione cadde sui figli Eteocle e Polinice: si sarebbero reciprocamente uccisi. Tuttavia, nonostante la consapevolezza che la Μοῖρα avrebbe agito, i due fratelli si separano, nella speranza di salvarsi. Invece il destino procede inesorabile: Polinice muove in armi contro Tebe mentre Eteocle difende la sua città e i due si uccidono.
Nella Grecia antica si distinguevano due tipi di guerre: Πόλεμος e στάσις; la prima è la guerra contro i nemici in cui uccidere è “gratificante”, la seconda è la cosiddetta guerra intestina in cui uccidere, per i greci, era ignobile.
Pertanto, mentre Eteocle ha combattuto un Πόλεμος contro il fratello e merita una degna sepoltura, Polinice invece ha combattuto una στάσις e quindi non ne ha diritto. Nell’Atene del V sec. i tradimenti contro la patria, come quello di Polinice, venivano puniti tramite la precipitazione del βάραθρον: i corpi dei traditori erano esposti a uccelli e animali selvaggi, non ricevendo nessuna sepoltura.
Il tema della sepoltura è centrale nella Grecia antica: essa è simbolo della civiltà che è sancita con la nascita polis, ma che in realtà già era presente da prima in quanto parte delle leggi consuetudinarie greche. Infatti, Antigone ben prima della nascita polis si batte per il δίκαιόν φυσει, ovvero il giusto per natura, definito da Aristotele nella Poetica. Aristotele pone la distinzione tra leggi naturali e leggi positive, che ha come presupposto lo ius naturae, che emerge nei più diversi contesti culturali e che dunque non deriva dai costumi e dagli usi dell’uomo ma esiste da sempre poiché è legge divina.
Tuttavia, il pensiero di Aristotele è stato interpretato come una legge secondo cui i più forti per natura prevalgono sui più deboli e di qui si sono legittimate prevaricazioni come la schiavitù, la sottomissione e l’asservimento delle donne, considerate appunto più deboli “per natura”.
Quando Creonte viene a sapere della sepoltura di Polinice ordina di trovare il colpevole e una guardia porta al suo cospetto Antigone. Dal loro confronto emerge il tema delle leggi divine rivendicate da Antigone, che secondo lei legittimavano il suo gesto sebbene in contrasto con la legge positiva.
L’interpretazione della storica moderna Laura Pepe parte dalla considerazione che identificare in definitiva Antigone come la paladina della giustizia divina sarebbe riduttivo in quanto è un personaggio assai complesso. Infatti, la sua critica è volta ad esaminare anche la figura di Creonte da non identificare in assoluto come tiranno dispotico che ignora il concetto di giustizia.
Prima di tutto, nel commentare il titolo dell’opera Pepe evidenzia come i tragediografi allora non attribuissero un titolo alle tragedie, ma i titoli risalgono a epoche successive e sono del tutto convenzionali. Ad esempio, secondo la storica il titolo “Antigone” sarebbe incompleto in quanto dovrebbe includere anche il nome di Creonte, coprotagonista; infatti l’uno non può esistere senza l’altro. Invece, secondo l’interpretazione tradizionale della tragedia, i ruoli di Antigone e Creonte sono diametralmente contrapposti in quanto l’una rappresenta la giustizia e la pietà mentre Creonte l’ingiustizia, il male, l’empietà.
Autorevole sostenitore di questa tesi è lo storico della letteratura greca Gennaro Perrotta che nelle sue critiche individua sin dal prologo della tragedia la figura di Antigone come l’eroina: ciò si evince nel passo in cui Antigone definisce la sua azione “un’empietà santa”, cioè un’empietà apparente che è effettivamente un’opera di pietà e di giustizia, e rimprovera Ismene sua sorella, riluttante ad aiutarla, di disprezzare “gli onori dovuti agli dei”.
Per contro, Creonte, secondo Laura Pepe, non è soltanto un tiranno ma concepisce la giustizia in un modo diverso da Antigone e spiega perché: la sua idea di giustizia non considera privilegiati i parenti rispetto agli altri, per Creonte la legge è uguale per tutti, ma lui punisce chi non è “amico della patria” a prescindere dal legame di parentela. La Pepe quindi elogia queste idee democratiche che in fondo non sembrano denotare Creonte come una figura negativa, al contrario anteporre i tutti all’uno sembra un ideale giusto.
Allora perché Antigone, se è considerata così giusta, disattende al decreto di Creonte? Perché lei crede in un altro tipo di giustizia.
La protagonista mostra l’altro lato di sé in due occasioni.
Nella prima afferma che non si sarebbe mai battuta in questo modo per uno schiavo, e nella seconda non lo avrebbe mai fatto per il marito o per il figlio, in quanto l’unico che non si poteva sostituire era il fratello. Pertanto, lei non sarebbe la custode assoluta delle leggi naturali, poiché pretende per sé una giustizia differente dagli altri. Antigone non è totalmente contraria alle leggi positive di Creonte, lei crede che sia giusto che tutti le seguano. Tranne lei. Infatti nel discorso con la sorella Ismene per convincerla ad aiutarla nella sua missione dice che se la avesse seguita sarebbe stata considerata ευγενής quindi nobile da εὖ (bene) + γένος (stirpe), in caso contrario parte del volgo quindi κακός.
Pertanto, lei crede di essere autonoma dalle leggi e segue una legge propria ignorando le contingenze.
Invece l’ideale supremo di Atene è quello di raggiungere l’ἰσονομία, da ἴσος «uguale» e – Νόμος “legge”, ne è un esempio Socrate che muore per mano della democrazia ateniese, ritenendo che è sempre meglio subire un’ingiustizia piuttosto che farla.
In questo contesto la tragedia assume un significato di conflitto insanabile, non di verità assoluta. A differenza della favola nella tragedia non c’è una divisione netta tra bene e male, ma la rappresentazione più coerente sarebbe quella dello Yin dello yang della filosofia cinese, secondo cui nel male c’è una parte di bene e viceversa; Creonte che fa seppellire Antigone viva per punirla di aver contravvenuto alle sue leggi poi si pente.
Emone, innamorato di Antigone tenta di dissuadere Creonte dicendogli che la vera forza di un sovrano sta nel piegarsi, proprio come gli alberi nelle tempeste, ma lui scoppia d’ira e non cede, poi ritenta l’indovino Tiresia distinguendo la cecità fisica e la cecità mentale, malattia da cui è affetto Creonte. Tuttavia, Creonte non ne vuole sapere e Tiresia se ne va maledicendolo.
In pectore suo Creonte capisce che l’indovino ha ragione e tenta di rimediare ai mali commessi, fa seppellire il corpo di Polinice, e vuole liberare Antigone che però si è già impiccata, poi vede Emone suicidarsi e pure la sua moglie Euridice si uccide, non appena apprende della morte del figlio. Quindi Creonte infine si pente, ma ormai è solo: ha perso tutti.
Nella tragedia emergono vari conflitti come quelli tra uomo e donna, giovani e potere, e tra le due forme di Νόμος, legge divina e legge positiva, che danno vita al dibattito tra gli spettatori, questo è uno degli obiettivi principali della tragedia. Per lungo tempo i greci avevano creduto che obbedendo alle leggi divine avrebbero conseguito la giustizia, fino a quando i sofisti come Protagora contribuirono alla svolta culturale greca, secondo cui “l’uomo è misura di tutte le cose”, non più la divinità.
Per quanto riguarda l’idea di democrazia, sarebbe errato considerarla ontologicamente connessa con la città di Atene, prima di tutto perché la democrazia ateniese non corrisponde affatto all’ideale di democrazia a cui siamo giunti oggi, secondo perché non è esistita da sempre ad Atene, terzo perché non è sempre stata salda, ma messa in pericolo da continui colpi di stato.
Alcuni credono che un avvicinamento della politica ateniese alla democrazia si sia verificato con Clistene nel 508-507 a.c, e che venne poi consolidato da Pericle nel trentennio che va dal 460 al 430, dopo la fine delle guerre Persiane. Si perviene a questa conclusione in quanto Pericle fu colui che per primo ha cercato di radicare l’isonomia ad Atene, rendendo chiaro come la legge fosse uguale per tutti a prescindere dall’estrazione sociale.
Se apparentemente Sofocle sembra contrario a questa forma politica, in realtà non è così, in quanto pone la figura di Antigone come un modello inapplicabile alla realtà: il suo personaggio è rappresentato da una donna, che al tempo non era considerata un soggetto giuridico in grado di assumere una posizione politica, pertanto la sua figura apre alle aporie del potere dispotico, ma non c’è una risposta unica, non c’è una verità assoluta.
Con una celebre battuta, scritta a molti decenni di distanza dalla grande stagione del V secolo, Platone era riuscito a cogliere il senso e l’importanza del teatro per Atene: più che una democrazia, Atene è una ‘teatrocrazia’. Atene è una teatrocrazia, perché il teatro è lo specchio della città, in cui la città “si rappresenta di fronte a sé stessa, nel suo sapere condiviso, nelle sue esigenze morali, nelle sue crisi e nelle sue contraddizioni”.
Infine, secondo lo storico della filosofia Mario Vegetti con la figura di Antigone non si cade nella secolarizzazione, quindi la civiltà non dimentica il proprio passato ma impara qualcosa di nuovo. Infatti è significativo il termine posto in explicit della tragedia: διδάσκω, che accomunava allora i greci e oggi noi tutti.