di Daniele Giannoni, II G

Ha destato particolare scalpore l’ultima dichiarazione del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, che, durante una conferenza tenutasi il 21 novembre a Milano, ha parlato del problema della violenza tra i giovani e del bullismo. Citando l’episodio avvenuto a Gallarate di un ragazzo che ha tirato un pugno a una professoressa, il ministro ha lodato la sospensione di un anno che è stata imposta allo studente, ritenendola tuttavia insufficiente: «questo ragazzo ha sbagliato e nessuno, nessuno, è legittimato a dire “no, ma questo ragazzo, in fondo, magari poteva avere le sue motivazioni”», «quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili», e ancora «deve imparare cosa significa il senso del dovere»; poi si dedica a considerazioni più generali: «è essenziale nella repressione delle devianze, il controllo sociale, la stigmatizzazione pubblica», «evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità. Di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto, da lì nasce la maturazione, da lì nasce la responsabilizzazione».

Innanzitutto Valditara esclude qualsiasi tipo di analisi critica nei confronti di chi compie atti di violenza o bullismo. È ovvio che nessuno giustifica episodi di questo genere, tuttavia è sempre bene analizzarli criticamente nel loro complesso: ricordare che dietro ragazzi, che praticano atti di bullismo o addirittura si danno alla criminalità, spesso ci sono condizioni familiari, economiche o sociali disagiate, non significa giustificare, ma significa comprendere perché questi episodi avvengono, cercando di risolvere il problema all’origine e non limitandosi a severe punizioni, spesso inutili, che guardano soltanto alla situazione momentanea.

Per il ministro invece bisogna punire e reprimere le “devianze” (utilizza la stessa parola infelice che aveva fatto tanto discutere quando era stata pronunciata ad agosto dalla Meloni), ad esempio tramite i lavori socialmente utili. Ma il lavoro imposto come punizione non è tanto importante quanto il fatto che questo debba essere umiliante; il ragazzo, per comprendere il senso del dovere e del rispetto, non solo deve lavorare, ma deve farlo “di fronte ai suoi compagni”, affinché questi possano ammirarlo mentre si umilia, e perché no magari anche prenderlo in giro davanti a tutti.

Parlando di stigmatizzazione pubblica, di controllo sociale e di totale assoggettamento dello studente all’autorità scolastica, Valditara sembra uscito da una scuola pre ’68. Peccato che nel mentre la maggior parte delle ricerche psicologiche e degli esperti pedagogisti hanno smentito questa sua visione; è ormai generalmente assodato il fatto che reprimere, e ancora di più umiliare, non solo non dissuade da certi comportamenti, ma anzi causa rancore e frustrazione che poi sfociano in azioni spesso peggiori: questo discorso vale sia per un bulletto di una scuola media sia per un criminale carcerato. Per fare in modo che chi ha compiuto azioni di questo tipo non le ripeta, bisogna far comprendere l’errore e non reprimere duramente fino all’umiliazione. 

Invece che abbandonarsi a dichiarazioni superficiali e smentite dai più importanti studiosi, il compito dei politici dovrebbe essere quello di risalire alle cause di questi avvenimenti. Piuttosto che essere puniti, i ragazzi dovrebbero essere seguiti e formati, affrontare il tema della salute mentale, quello delle droghe, del bullismo e della violenza di genere; in caso di bisogno, le loro famiglie dovrebbero essere aiutate e si dovrebbe fare in modo che nessun ragazzo si trovi in condizioni disagiate, che spesso portano inevitabilmente alla via della violenza e della criminalità, ma la politica continua ad ignorare tutto ciò.

Questa visione discriminatoria e classista della scuola del nuovo governo, è confermata d’altronde dall’aggiunta della parola merito al nome del ministero dell’Istruzione. Il merito non può essere applicato in una società in cui siamo tutti diversi l’uno dall’altro e partiamo da condizioni familiari, economiche e sociali differenti: perché c’è chi può permettersi di prendere ripetizioni, e chi no; c’è chi vive lontano da scuola e, tornato a casa stanco dopo un’ora di autobus, deve farsi da mangiare da solo, e chi in cinque minuti è già a casa con il pranzo a tavola e ha il tempo di riposarsi per poi mettersi a studiare tranquillamente; c’è chi riesce a memorizzare un concetto dopo averlo letto una volta e chi ha bisogno di ripeterlo decine di volte, ma non per questo l’uno è migliore o più “meritevole” dell’altro.

Insomma, non si può far finta che siamo tutti uguali, tantomeno si può affermare che il motivo di un cattivo andamento scolastico sia sempre il poco impegno e la scarsa applicazione, piuttosto bisognerebbe fare in modo che, almeno per quanto riguarda la scuola, tutti abbiano le stesse opportunità e raggiungano dei risultati, sebbene non tutti partano dallo stesso livello. Questo governo sembra invece voler accentuare ancora di più le già forti disuguaglianze presenti nel nostro sistema scolastico, discriminando tra “meritevoli” e “deviati”: tra studenti di serie A, privilegiati, che vanno avanti, e studenti di serie B, umiliati, che rimangono indietro.

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