di Camilla Albore

Una donna seminuda e il suo sguardo vacuo, una strada vuota bagnata da una luce taciturna, una notte silenziosa rischiarata da una finestra illuminata.

Edward Hopper, vissuto tra il 1882 e il 1967, è stato un pittore e illustratore statunitense e uno dei principali esponenti del realismo americano. Egli divenne famoso non solo per l’emblematica rappresentazione della solitudine presente nei suoi quadri, ma anche per l’influenza fondamentale trasmessa dai suoi quadri al mondo del cinema.

Registi cinematografici importanti come Alfred Hitchcock si ispirarono alle sue tele e alla sua estetica. Hitchcock, in particolare, ne riprese l’immobilità, la stasi, il senso di attesa, ma soprattutto il modo in cui Hopper riuscì a dare un’anima anche a edifici e oggetti inanimati. Tutti questi elementi testimoniano, infatti, l’importante contributo artistico che questo pittore ha regalato alla sua epoca e non solo.

Con il suo stile criptico e originale, riuscì in poco tempo a conquistare la critica artistica e i suoi quadri, già a metà anni Venti, erano accolti in centri culturali, gallerie e musei.

Dopo il cromatismo intenso delle opere impressioniste, i quadri di Edward Hopper sembrano essere privi di potenza pittorica. I colori sono per lo più spenti, il tratto disegnativo è semplificato, ma in realtà sono proprio questi elementi che conferiscono intensità espressiva ai suoi quadri. Ciò potrebbe sembrare contradditorio, invece il punto di forza della sua intera arte pittorica risiede proprio nell’ossimoro e nel contrasto. L’essenzialità e l’espressività sono i due cardini della sua pittura che è scarna, ma anche penetrante, silenziosa e, nonostante ciò, assordante. I suoi quadri sono privi di dinamicità, immersi in una solitudine quasi opprimente, una solitudine accompagnata e accarezzata da quella luce bianca, lattea e intensa che caratterizza le sue opere. La sua arte è taciturna, si districa tra le strade di città sospese, tra le camere di case spoglie di vita e tra le finestre illuminate di palazzi sconosciuti, ritraendo piccoli scorci di quotidianità.

Egli intende rappresentare il mondo visto con i suoi occhi, un mondo misurato da quella solitudine immersiva, collocando i personaggi in paesaggi e spazi troppo vasti e in stanze troppo vuote, rendendo evidente la piccolezza e l’insignificanza dell’uomo di fronte all’imbattibile meccanicismo della modernità.

I volti delle persone ritratte sono inespressivi, privi di emotività, spenti. Essi sembrano leggeri corpi senz’anima che volteggiano in un mondo vacuo, privo di senso, sospeso.

L’inespressività dei volti si contrappone all’espressività trasmessa dai suoi quadri: egli, infatti, riesce a dare un’anima anche a delle semplici architetture, portando l’osservatore ad una sorta di introspezione emotiva.

Eppure gli sguardi dei suoi soggetti pittorici sono vacui, i loro corpi alienati, i loro volti assenti, prigionieri di un mondo che li ha resi automi senza emozioni, un mondo in cui si osserva chiaramente l’incomunicabilità e la distanza tra esseri umani.

“Se lo potessi dire a parole non ci sarebbe necessità di dipingerlo”. Afferma lui stesso. Edward Hopper, infatti, non ha avuto bisogno di parole complesse e di grandi discorsi, ma solo di un semplice pennello per raccontare in modo efficace ogni aspetto della vita dell’uomo.

Egli, con la sua semplicità, è riuscito a raccontare la solitudine, il silenzio, il vuoto esistenziale, ma soprattutto le conseguenze delle contraddizioni di un mondo industrializzato e moderno che ha imprigionato l’uomo in una spirale di disumanizzazione.

Edward Hopper, Morning sun (1952; olio su tela, 101,98 x 71,5 cm; Columbus, Columbus Museum of Art)

Questo quadro, realizzato nel 1952, è estremamente emblematico al fine di comprendere lo stile estroso di Hopper. Egli rappresenta una donna seminuda con le braccia abbandonate sulle gambe e con lo sguardo vitreo fisso verso il mondo esterno. La stanza è inondata da un bagliore di luce intenso e travolgente al quale, tuttavia, l’occhio della donna rimane impassibile.

Il corpo sembra essere sospeso, talmente leggero da non imprimere nemmeno la forma sul materasso, un corpo fuori dal tempo e dallo spazio cristallizzato in una condizione di eterna immobilità. Il tema della solitudine ritorna e permea l’intero quadro pervadendo non solo il soggetto femminile, ma anche quella stanza scarna, vuota e priva di decorazioni.

Edward Hopper, Finestre di notte (1928; olio su tela, 73,7 x 86,4 cm; New York, MoMA)

Un elemento molto ricorrente nelle opere di Edward Hopper sono soprattutto le finestre. Esse tessono la trama narrativa della storia di un uomo e giocano un ruolo fondamentale nella struttura compositiva dei suoi quadri. Lo spettatore, grazie alla finestra che funge da elemento di passaggio, viene introdotto in uno spazio privato, ma senza esserne direttamente partecipe. Osserva il tutto dall’esterno, aumentando questo senso di estraneità ed esclusione. Questa comunicazione e allo stesso tempo separazione tra esterno e interno viene accentuata dai contrasti cromatici, come si nota in particolare in “Finestre di notte” in cui lo scuro muro esterno si contrappone alla luce intensa che pervade l’interno della stanza.

Edward Hopper, I nottambuli (1942; olio su tela, 84,1 x 152,4 cm; Chicago, Art Institute of Chicago)

“I nottambuli” può essere certamente considerata l’opera più famosa e significativa dell’artista, in quanto presenta condensati insieme tutti gli elementi caratteristici dello stile artistico di Hopper. Tutto si svolge in un perfetto scenario quasi teatrale. La luce spettrale del ristorante pervade la vuota strada notturna, conferendo al dipinto un’atmosfera quasi inquietante. Il quadro appare come una sorta di istantanea di quotidianità in cui, tuttavia, la distanza e l’incomunicabilità dei personaggi misurano e regolano lo spazio circostante. Inoltre la mancanza di una narrazione specifica del quadro determina la mancanza di una dimensione di collocazione spazio-tempo che acuisce quell’atmosfera di inquietante sospensione.

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