di Liverani Sofia, V F

Conoscevo un ragazzo, anni fa. Magrolino, capelli castano scuro, sempre entusiasta di tutto. Non aveva molti amici, ma per certo sapeva divertirsi, anche con poco. Ricordo fosse estremamente affezionato al nonno, mi invitò anche alla sua residenza fuori città un paio di volte, lo conobbi, ma soprattutto conobbi il duo inseparabile che formavano: l’uno pieno di energie e pronto a tutto, l’altro flemmatico e traboccante di esperienza.

Recandosi da quest’ultimo, il giovane sempre spendeva il suo tempo sotto un salice bianco che si trovava nel suo giardino, dietro la casa. Era un albero affascinante, monumentale di statura come di radici, piangente di chioma e annoso come il nonno: gliene parlava, della sua gioventù e del germogliare dell’allora piccolo arbusto. Passavano interi pomeriggi insieme, con i nasi dritti al cielo, a indicare una nuvola o un’altra, a parlare del tutto e del niente, stretti l’un l’altro, sempre sotto l’ombra del grande salice. Il tempo si distorceva, le lancette non si muovevano mai o si muovevano tutte insieme, nemmeno fosse un viaggiatore del tempo; in ogni caso il tramonto arrivava sempre troppo presto.

L’arbusto sempre era lì in ogni occasione, a confortare il giovane nelle pene di cuore, a fargli compagnia nei momenti di solitudine, ad ascoltarlo quando aveva qualcosa da raccontare. Con le frasche che si abbandonavano al vento lo rinfrescava nelle calde primavere, con gli alti rami lo proteggeva dal sole scottante dell’estati, con le imponenti radici lo abbracciava e accoglieva nelle stagioni più rigide.

Così il ragazzo passò la sua intera gioventù, fino al momento in cui capì che essa stava finendo e che doveva tornare a vivere nel tempo attuale. Si trasferì in città, e la vita frenetica che incominciò a sopportare e la stessa lontananza fisica, non gli permisero di vedere il nonno spegnersi con i suoi occhi. La villetta in campagna tanto adorata dal nipote fu venduta e cambiò proprietario, il quale volle abbattere il salice. Ormai uomo corse senza il minimo indugio dal suo silenzioso e vetusto compagno di vita per salvarlo, ma arrivò lì in tempo solo per salutarlo un’ultima volta.
Egli decise però di ricambiare il favore che per tutto questo tempo il salice gli aveva assicurato: raccolse una talea da piantare in un piccolo vaso che avrebbe tenuto in balcone, sul davanzale della cucina, in modo che ogni qualvolta avesse voglia o bisogno di chiacchierare, il suo salice sarebbe ancora stato lì per lui, come sempre era stato.

Di Sofia Liverani

II F, caporedattrice, prima paginista, articolista.

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