di Flavia Perugia, IV F
Lunedì 23 gennaio ho assistito, insieme ad altri studenti del mio liceo, ad un evento speciale per il Giorno della Memoria 2023 al Teatro dell’Opera di Roma.
Durante la serata è stato proiettato in anteprima il documentario Il respiro di Shlomo, ed è stato usato da Vincenzo Borghese, primo violinista del teatro, “il violino di Auschwitz”, un violino appartenuto al musicista polacco Jan Hillebrand, uno dei componenti dell’orchestra di Auschwitz, recuperato e fatto restaurare da Francesco Lotoro, pianista, compositore e direttore d’orchestra italiano tra i più grandi esperti di musica concentrazionaria, da oltre trent’anni impegnato nel recupero dell’immenso patrimonio musicale prodotto nei lager.
È difficile raccontare le emozioni di quanto ho vissuto durante la serata, i sentimenti non sono mai facili da trasformare in parole, e forse per me questa traduzione è ancora più ardua da svolgere perché mio nonno, Angelo Perugia, è stato un sopravvissuto di Auschwitz.
Vedere proiettato sullo schermo del teatro il documentario, e sentire parlare il protagonista del docufilm: Shlomo Venezia, sopravvissuto anche lui al campo di concentramento Auschwitz Birkenau, ha aperto delle ferite familiari che non potranno mai guarire e che solo grazie alla conoscenza della storia, e alla memoria che ne consegue, possono smettere di sanguinare perché alimentate dalla speranza che ciò che è stato possa, anzi debba, non verificarsi mai più.
La serata ha avuto inizio dopo la presentazione dell’evento da parte del sovraintendente del Teatro dell’Opera Francesco Giambrone, della Presidente delle Comunità Ebraiche italiane Noemi Disegni, e di alcuni rappresentanti della Fondazione Museo della Shoah tra i quali era presente Mario Shlomo, figlio di Schlomo Venezia.
Hanno invece presentato il documentario, al fine di spiegarne il contenuto, lo storico Marcello Pezzetti e il regista Ruggero Gabbai; in sala erano anche presenti diverse importanti autorità del campo della cultura e dello spettacolo, tra le quali Walter Veltroni e Vittorio Sgarbi. Commovente inoltre la partecipazione di Sami Modiano, uno dei pochissimi superstiti della Shoah vivo ancora oggi, sopravvissuto ad Auschwitz.
L’emozione di sentire le note del violino intonare il Kol Nidrè, uno dei canti più importanti della tradizione liturgica ebraica che viene suonato durante la festività del Kippur, mi ha fatto salire un nodo in gola, e la mia mente è volata a mio nonno, a quel suono che anche lui forse udiva nel Campo.
La cultura al servizio dell’orrore, la musica al servizio di assassini: queste le parole che ho udito durante la presentazione della serata e che mi sono rimaste impresse nella mente. Nonostante tutto però la vita, lo spirito dell’essere umano, è riuscito a sopravvivere, a non morire, e la testimonianza di tutto ciò l’ho sentita nelle note dei due violini la cui musica ha concluso la serata, composte proprio in un lager, quello di Sachsenhausen, dal compositore olandese deportato anche se non ebreo, perché non volle abbandonare la moglie che invece ebrea lo era.
Le scene del documentario girate per la maggior parte proprio nel campo di Birkenau con la presenza di Shlomo Venezia, e soprattutto il racconto fatto dal sopravvissuto, mi hanno lasciato un grande senso di vuoto, di malessere, di rabbia per l’incapacità di capire, di trovare una spiegazione di come sia potuta accadere nella storia questa tragedia che ha visto assassinati nella maniera più brutale e disumana milioni di persone.
Perché di fronte a tale orrore non possono esistere parole, non possono esistere spiegazioni, non si può capire, comprendere… Questo è ciò che mi lacera ogni volta e che mi fa credere che purtroppo il male esiste o quanto meno è esistito.
Shlomo Venezia era un ebreo di nazionalità italiana, nato a Salonicco, e fu arrestato e deportato insieme a tutta la sua famiglia al campo di concentramento di Auschwitz Birkenau. Lì fu selezionato tra i prigionieri ad entrare nell’unità speciale dei Sonderkommando, la squadra che aveva il compito di lavorare all’interno dei crematori.
Inimmaginabile la sofferenza di quest’uomo costretto per sopravvivere a svolgere uno dei lavori più brutali dei campi, quello di vedere assassinati migliaia di esseri umani, e contribuire con la propria manovalanza, perché costretto, allo smaltimento dei cadaveri. Shlomo doveva separare i corpi ammassati in mucchi dopo lo sterminio che si svolgeva dentro le camere a gas, tagliare i capelli ai cadaveri e metterli poi dentro una carriola per veicolarli in uno dei tanti forni crematori, al fine di essere inceneriti per lo smaltimento finale.
Quest’uomo riuscì a parlare, a raccontare la tragedia vissuta solo dopo tantissimi anni dal suo ritorno. Ci provò inizialmente, ma comprese che lo deridevano, lo prendevano per pazzo e quindi tacque.
Solo nel 2005, dopo un lungo percorso psicologico supportato da parenti e amici, riuscì ad aprirsi incoraggiato soprattutto dall’affetto di moltissimi studenti, che lo accompagnarono nei luoghi dello sterminio desiderosi di apprendere per ricordare.
Sono anch’io oggi una giovane studentessa che, nonostante non abbia avuto la fortuna e l’onore di conoscere suo nonno, ha la consapevolezza di avere una coscienza storica, di aver imparato e appreso ciò che è stato e che per questo sente la forte responsabilità di ricordare, di voler manifestare e festeggiare per tutta la vita il Giorno della Memoria.
Voglio credere che tutti possano assumersi questa responsabilità, affinché rimanga sempre vivo il ricordo dell’orrore che è esistito, e affinché la cultura svolga un ruolo di primo piano, e sia la protagonista assoluta nel voler e dover contrastare sempre qualsiasi forma di discriminazione.