di Francesco Parascandolo, III B

Per quanto riguarda le infinite interpretazioni dell’esperienza e della storia umana, siano esse frutto di un’analisi di tipo politico, filosofico o letterario, credo che esse possano in definitiva essere ridotte a due sole prospettive essenziali e presenti da sempre, ovvero la visione progressista e quella conservatrice. Gli stessi testi proposti vengono a dimostrazione di ciò, in quanto presentano, dal punto di vista di vari autori in vari periodi storici dell’epoca romana, la costante e interminabile contrapposizione dialettica fra la volontà di conservare gli antichi valori, gli antichi costumi e soprattutto l’antico ordine sociale, nella convinzione di costruire una società più solida e sicura di sé, e l’intenzione di proporre nuovi valori, nuove prospettive, nuovi ordini sociali, nella convinzione che essi siano migliori e che, soprattutto, il superamento del “vecchio” sia inevitabile.

Fiero sostenitore di questa seconda visione è sicuramente Seneca, del quale sono proposti ben tre testi che, partendo da esempi concreti ed argomentazioni molto diverse fra di loro, arrivano alla stessa conclusione, ovvero all’inevitabilità e alla bontà del progresso, progresso inteso però in modo non del tutto convenzionale. La tesi di fondo espressa dal filosofo latino è infatti molto interessante: egli rifiuta la visione secondo la quale per “fare qualcosa di nuovo” si intende fare qualcosa di radicalmente opposto al vecchio, distruggendolo e negandolo, incitandoci a rendere “ampliora quae accepimus”, ovvero a rendere più grandi le cose che abbiamo ricevuto; infatti “ulli nato post mille saecula praecludetur occasio aliquid adhuc adiacendi”, a nessuno, anche nato dopo mille secoli, sarà preclusa l’occasione di aggiungere ancora qualcos’altro. È proprio nelle espressioni “facere amplior” e “adiungere” che sta la cifra più interessante della riflessione senecana: il progresso e la novità, intesi non come distruzione del vecchio ma come aggiunta ad esso, sono possibili e migliori del vecchio, proprio grazie alla presenza del vecchio stesso. Infatti, solo tenendo a mente le antiche scoperte, le antiche usanze, gli antichi valori e gli antichi progressi si è in grado di apportare un miglioramento ed un rinnovamento agli stessi, prendendone le cose buone ed aggiungendone di altre.

In tutti e tre i testi di Seneca si possono poi individuare alcune argomentazioni ed esempi che lo portano a sostenere l’inevitabilità del progresso e dell’avanzamento della conoscenza: nel testo tratto dalle “Epistulae ad Lucilium” è particolarmente d’impatto una delle classiche sententiae senecane, che esprime in maniera lessicalmente impeccabile questo concetto. Riferendosi agli antichi, Seneca afferma che “Multum egerunt (…) sed non peregerunt”, hanno fatto molto, ma non hanno compiuto tutto. In questa frase, il verbo “perago” (concludere, portare a termine, a conclusione, arrivare alla fine) è contrapposto al verbo “ago” (agire, fare), e la preposizione “per”, che distingue i due verbi, ha il compito di fornire il significato di finitezza ad uno e quello di dinamicità all’altro, che ben riassume il concetto che Seneca vuole esprimere. Nel primo dei due testi tratti dalle “Naturales Quaestiones”, inoltre, il filosofo riflette su come il progresso sia inevitabile in quanto “longe semper a perfecto fuere principia”, gli inizi sono sempre stati lontani dalla perfezione, ed è quindi fondamentale continuare a migliorare e perfezionare le conclusioni raggiunte agli inizi. Infine, nel terzo e ultimo suo testo proposto Seneca lancia un invito ai suoi contemporanei: “Contentis simus inuenti: aliquid ueritati et posteri conferant”, ovvero li invita ad essere contenti di quello che si è scoperto, e a lasciare che qualcosa alla verità la aggiungano anche i posteri.

Simili argomentazioni vengono presentate anche nei testi di Tito Livio e Tacito, che riportano rispettivamente i discorsi del tribuno Canuleio e dell’imperatore Claudio i quali, da due posizioni socio-politiche differenti e in due contesti storici molto diversi, sostengono con la stessa convinzione la necessità e l’inevitabilità del progresso. Il primo, tribuno della plebe, porta avanti la richiesta di rendere possibile anche a cittadini di estrazione plebea il ricoprire la carica di console, sostenendo che sia impossibile non istituire nuovi diritti e nuove cariche “in aeternum urbe condita”, in una città fondata per durare in eterno, e porta molti esempi storici di cariche pubbliche esistenti al suo tempo ma che prima non esistevano, sottolineando l’inevitabilità di un continuo rinnovamento dello Stato. Anche l’imperatore Claudio nel suo discorso, riportato da Tacito, in cui sostiene la necessità di ampliare il diritto alla cittadinanza romana, afferma che “Omnia (…) quae nunc uetustissima creduntur, nova fuere” (tutte le cose che ora si credono antichissime furono nuove), portando anche esempi storici a sostegno di ciò, e che “quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit”, ovvero quello che oggi giustifichiamo con gli antichi esempi, sarà fra gli esempi, a dimostrazione del fatto che tutto, per quanto all’epoca innovativo e utile, è e dev’essere superabile e migliorabile.

In epoca moderna, ritengo che la presa di coscienza di un mutamento presente e la riflessione sul passato abbiano portato, nel delicato periodo storico che va dalla metà alla fine dell’Ottocento, a due opposte reazioni identificabili nel Positivismo e nel Decadentismo, e in tutti i movimenti filosofici, politici e letterari che essi hanno ispirato. Nella seconda metà dell’Ottocento, infatti, in Occidente si stava realizzando la Seconda Rivoluzione Industriale, con la conseguente formazione della società di massa e il conseguente imborghesimento della popolazione, imborghesimento che portò con sé una serie di nuovi valori che a poco a poco si sostituirono completamente a quelli vecchi. A questo stravolgimento vi furono, come già accennato, due opposte reazioni, quella positivista e quella decadente che, con estrema banalizzazione, possono essere sintetizzate, soprattutto alla luce dell’impatto politico e sociale che hanno avuto in seguito, come rispettivamente una reazione progressista e una conservatrice. Dai presupposti scientifici, razionali e ottimisticamente progressisti del Positivismo, oltre a importanti movimenti letterari come il Naturalismo e, in Italia, il Verismo, nacque in ambito prima filosofico e poi politico, dalla riflessione di Karl Marx, il marxismo, ovvero quel movimento che, sempre in estrema sintesi, partendo dall’assoluta convinzione nella progressività positiva della storia arriva a sostenere l’inevitabile sovversione del sistema borghese capitalistico vigente, proponendo al suo posto un’alternativa possibile grazie al cambio di classe dominante, e quindi valori e di cultura egemone.

Dall’altra parte vi sono i presupposti disillusi e ostili nei confronti del progresso del Decadentismo, spiegati con una potente metafora da uno dei maggiori poeti decadenti, Paul Verlaine, nel suo più famoso componimento che inizia con l’affermazione “Io sono l’Impero alla fine della decadenza”. Questo sentimento di decadenza, di perdita di valori e di ripudio dell’ottimismo progressista borghese ha portato prima, in ambito letterario, a un movimento poetico detto dei “poeti maledetti”, di cui faceva parte anche lo stesso Verlaine e che era caratterizzato da uno stile di vita sregolato e opposto alla razionalità borghese e poi, in ambito filosofico, alla riflessione di Nietzsche, alla sua esaltazione del dionisiaco in contrapposizione all’apollineo, dell’irrazionale sul razionale, dell’eroico superuomo sul mediocre e insulso borghese. Seguendo alla lettera la cieca fiducia nel progresso del marxismo, si è arrivati a regimi totalitari nel corso del Novecento e a un materialismo disumanizzante, mentre seguendo alla lettera l’odio per la mediocrità, la disillusione, l’esaltazione di una passata età dell’oro, eroica e gloriosa, si è arrivati alla tragedia del nazismo e del fascismo.

Fra due reazioni tanto opposte quanto estreme e controproducenti, mi sembra più interessante il contributo dato da un intellettuale italiano circa un secolo dopo la nascita di questi movimenti, di estrazione e formazione marxista ma noto per la sua indipendenza e libertà di pensiero, Pier Paolo Pasolini. Proprio ieri leggevo alcuni suoi articoli, all’interno della raccolta Lettere luterane, sulla situazione sociale, politica e culturale dell’Italia degli anni Settanta. In quegli anni, il nostro Paese stava sperimentando l’apice del processo di imborghesimento e di creazione della società dei consumi avviatosi un secolo prima, con tutte le sue conseguenze sulla cultura e sullo stile di vita della popolazione. La sua cinica e ingenerosa descrizione della società dei consumi fiduciosa nel progresso, e il suo costante concentrarsi sulla mancanza di valori in tale società, ha portato molti a definirlo come un conservatore, e da una lettura poco attenta dei suoi scritti può trasparire lo stesso atteggiamento disilluso e sprezzante che aveva ispirato il Decadentismo, ma la sua riflessione è in realtà molto più complessa e, a mio avviso, compie una sintesi fra visione progressista e una visione conservatrice, ammettendo la possibilità di un progresso positivo, ma solo a delle condizioni. Facendo infatti riferimento alla situazione italiana Pasolini, riprendendo un termine di Marx, parla di un “genocidio” culturale nei confronti del proletariato, il quale era stato privato della sua secolare alterità culturale rispetto alla borghesia e aveva subito un processo di imborghesimento, che rimaneva impossibile per le sue misere le condizioni economiche e si palesava quindi solamente in un’idiota emulazione delle aspirazioni e del modo di vivere borghesi. Promotori di questo genocidio culturale, sicuramente causato dal capitalismo, erano però secondo Pasolini anche gli stessi marxisti estremisti, seppur inconsapevolmente, in quanto, prefiggendosi l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei proletari, li volevano convincere a lottare per raggiungere le condizioni di vita dei borghesi, facendogli quindi assumere di conseguenza anche i loro valori il loro stile di vita.

Il dramma della situazione italiana era quindi questo genocidio culturale, che aveva eliminato l’alterità del proletariato e non gli avrebbe permesso di imporre dei valori nuovi e migliori di quelli borghesi, di attuare quell’egemonia culturale teorizzata da Gramsci, in quanto, anche se fosse riuscito a prendere il potere, quei valori non li avrebbe avuti più. Quello che causava l’abbrutimento della società, infine, non era la perdita dei valori passati, che andrebbero di conseguenza recuperati come vogliono i conservatori, ma l’inadeguatezza dei “non-valori” presenti, nel caso specifico quelli borghesi, inadeguatezza alla quale bisognava porre rimedio con la costruzione di un’alterità valoriale e culturale. La soluzione non è dunque quella conservatrice: i vecchi valori sono per forza di cose superabili e migliorabili, ma dato che non è sempre detto che i nuovi valori che si sostituiscono ai vecchi siano per forza migliori, bisogna capire quali siano quelli migliori e solo allora sostituirli ai vecchi.

La politica, dunque, deve per sua natura innovare e migliorare continuamente, altrimenti non avrebbe senso di esistere, ma non deve, presa dalla smania di migliorare, considerare come miglioramento tutto ciò che è “andare avanti”, come ci insegna magistralmente l’attenta analisi pasoliniana. Uno degli esempi più calzanti di questa smania di cambiare e migliorare a tutti i costi è sicuramente l’episodio della congiura di Catilina, raccontato con grande dovizia da Sallustio nel testo proposto. L’espressione che lo storico utilizza per indicare il sentimento da cui era travolta la plebe romana che supportava Catilina è esemplare: “nouarum rerum studio”, tradotto efficacemente con “la cupidigia di cose nuove”. Secondo Sallustio, i plebei “uetera odere, noua exopant”, ovvero hanno in odio le cose vecchie e bramano ardentemente (“exopto” è un verbo che descrive un forte desiderio) le cose nuove, e hanno questo atteggiamento “odio suarum rerum”, per odio delle loro condizioni. La tentazione, specialmente per persone in difficili condizioni economiche e sociali, di avere in odio lo status quo e tutto il passato che ad esso a portato, e di conseguenza volerli distruggere totalmente, è forte (vedasi la forte propensione alla cancel culture in America), come è forte la tentazione di considerare tutto ciò che è nuovo come necessariamente migliore.

Memori della lezione dei classici e anche di quella pasoliniana, però, dobbiamo essere consapevoli del ruolo essenziale che ha la conoscenza e l’accettazione nel passato nella costruzione del futuro, in quanto solo tramite esso si può andare verso un progresso che non sia semplicemente “nuovo”, ma autenticamente migliore. A questo progresso migliore la politica deve aspirare, ma può aspirarci solo se ha col suo passato il rapporto che intercorre fra il nano e il gigante nel testo proposto di Giovanni di Salisbury, per il quale noi contemporanei siamo il nano, e siamo sulle spalle di un gigante che è il nostro passato. Noi riusciamo dunque a vedere più in alto del gigante, ma non perché la nostra statura o la nostra acutezza di vista sia superiore alla sua, ma semplicemente perché gli stiamo sopra.

Ebbene, quello che rimane da fare è smettere di credersi dei giganti, ma rendersi conto che siamo solo dei nani che hanno avuto la fortuna di nascere sulle spalle di un gigante.

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