di Francesco Parascandolo, III B
Quale libertà senza alternativa?
Nella moderna filosofia politica, e nella sua analisi della società tardo-capitalista, sta man mano prendendo piede un’interessante teoria, elaborata per primo dal filosofo e politologo britannico Mark Fisher, che a mio avviso sviluppa ed amplia magistralmente le tesi sostenute da Herbert Marcuse nel testo proposto. Fisher parla infatti di “realismo capitalista”, ovvero quel sentimento, sviluppatosi a livello mondiale negli ultimi trent’anni, che vede il modello capitalista, liberista e consumista come il migliore nonché l’unico possibile, sostanzialmente come il punto d’arrivo dello sviluppo umano.
Ma come si è arrivati a questa presunta “fine della storia”, a questa totale rassegnazione allo status quo, a questa avvilente mancanza di prospettiva? Si può affermare, con Giovanni Gentile, che la storia, una volta che smette di essere tensione ideale, perpetuo movimento dello spirito, cessa di esistere, perde di senso, e la situazione della società contemporanea sembra dimostrarlo. Quando alla tensione ideale, motore del processo storico, si è sostituito il materialismo consumista creato dal capitalismo, l’uomo moderno ha smesso di immaginare alternative, ha smesso di seguire quella tensione ideale che per millenni lo aveva spinto in avanti, riducendosi in una condizione di supina accettazione dello stato di cose, come se esso fosse eterno, immutabile.
Anche Marcuse sostiene che una società sempre più capace di soddisfare i bisogni degli individui “può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettate come sono, e ridurre l’opposizione al compito si discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo”. Il dilemma posto dai due filosofi diventa quindi di fondamentale importanza: come può esistere libertà in una società che non concede alternative a se stessa? Quale può essere il ruolo delle opposizioni politiche e culturali, se è loro concesso di operare solo entro i confini già stabiliti dell’incontestabile modello liberista? Quale l’utilità della libertà di parola, se il coro delle voci apparentemente discordanti è in realtà un’unica voce che canta sempre la stessa canzone, variando al massimo la tonalità?
L’ideologia capitalista
Per definire con maggiore precisione la natura di questo “realismo capitalista” teorizzato da Fisher e Marcuse, ci viene in aiuto il termine “ideologia”, utilizzato qui alla luce dell’analisi marxiana. Karl Marx, infatti, definiva come “ideologia”, caricando questa parola di significato negativo, tutte quelle teorie filosofiche, politiche e sociali, prodotto di un determinato periodo storico e quindi espressione del pensiero e della cultura della classe dominante, che vengono astratte dal preciso contesto in cui sono state sviluppate ed elevate ad assiomi sempre validi e sempre applicabili, indipendentemente dal periodo storico.
Queste ideologie, per Marx, sono dannosissime, in quanto, avendo la pretesa di essere sempre valide, assumono una funzione giustificatrice del potere costituito, poiché lo reputano come l’unico possibile. Un esempio di ideologia è proprio il realismo capitalista: esso infatti altro non è che la convinzione che il modello capitalista e consumista, così come inteso e applicato oggi in tutto il mondo, sia inevitabile e definitivo, poiché insito nella natura umana e poiché considerato come il migliore e il più efficace.
L’ideologia capitalista, giustificando senza appello l’attuale sistema di potere, come del resto ogni altra ideologia, ha distrutto la tensione ideale, stroncando la possibilità di immaginare un’alternativa e di conseguenza svuotando di significato la libertà stessa.
Soddisfare i bisogni: sostanza di ogni libertà o principio primo di ogni schiavitù?
Proprio nell’analizzare il concetto stesso di libertà Marcuse, pur fornendo più avanti nel testo un’acutissima analisi della società contemporanea, già precedentemente esposta e da me totalmente condivisa, commette a mio avviso due errori ideologici, dettati proprio dal realismo capitalista di cui sopra si trattava. Il primo, infatti, è definire la “libertà dal bisogno” (e quindi il soddisfacimento di esso tramite il consumo di prodotti, obbiettivo della società consumistica) come “sostanza concreta di ogni libertà”, e il secondo è sostenere che questa presunta libertà stia “diventando una possibilità reale” grazie alla società capitalistica moderna.
Innanzitutto, è bene fare una distinzione fra i termini “bisogno” e “necessità”, seguendo il solco della riflessione sviluppata dal filosofo e teologo Vito Mancuso nel suo libro intitolato appunto “Il bisogno di pensare”, che ho fra l’altro avuto la fortuna di iniziare a leggere proprio qualche giorno fa. In questo saggio, Mancuso osserva come la necessità sia quel tipo di bisogno che si impone dall’esterno e che l’uomo deve soddisfare proprio a causa di questa imposizione che proviene da fuori di lui: si pensi ad esempio alla necessità di mangiare, di dormire, di avere un tetto sopra la testa, ma anche, per estensione, alla necessità di consumare beni incessantemente, derivante in buona parte anche dall’imposizione esterna a conformarsi e a comportarsi in un certo modo (su questo punto torneremo più avanti).
Il bisogno vero e proprio, invece, è qualcosa che proviene dall’interno del singolo uomo, una tensione naturale e morale, irrefrenabile, quasi un istinto, senza il soddisfacimento del quale l’uomo non riuscirebbe a vivere: non è imposto da nessun fattore esterno, è un qualcosa con cui si nasce, personalissimo e insondabile (è proprio questo il motivo per cui Mancuso chiama il suo libro “Il bisogno di pensare”, non “La necessità di pensare”).
Alla luce di questa analisi, credo sia corretto ridefinire l’interpretazione di Marcuse secondo questi criteri: in primo luogo, la libertà che il capitalismo consumista si propone di realizzare è la libertà dalla necessità, essendo che il consumo di beni soddisfa una necessità imposta dall’esterno e non un bisogno originato all’interno, e in secondo luogo questa libertà dalla necessità non può essere definita come la “sostanza concreta di ogni libertà”, in quanto il concetto di libertà per sua stessa definizione fa riferimento a una tensione innata e ideale, e quindi a un bisogno, e il soddisfacimento di una necessità non può essere la sostanza concreta di un bisogno.
Per quanto riguarda la libertà dalla necessità e il fatto che essa stia presumibilmente diventando “una possibilità reale” nell’odierno sistema capitalista, non posso che dissentire, per almeno due motivi.
In primo luogo, ritengo che questa convinzione sia viziata da una prospettiva della realtà decisamente limitata, in quanto incentrata unicamente sull’osservazione del mondo occidentale e “sviluppato”. Se è vero che in Occidente e, più in generale, nell’Emisfero settentrionale del mondo, il capitalismo ha portato ad un generale miglioramento delle condizioni di vita e ad un pressoché generale (sottolineo, pressoché) generale soddisfacimento delle necessità primarie della popolazione, è vero anche che questo sviluppo è avvenuto in larghissima parte grazie al secolare sfruttamento dei paesi meno “sviluppati” dell’emisfero meridionale, che ha portato i miliardi di abitanti di questi paesi a vivere tutt’oggi in condizioni di estremo disagio e povertà. Ciò dimostra che questa libertà dalla necessità non è assolutamente generalizzata, e che l’esistenza di miliardi di persone che non possono conseguire questa libertà è condizione necessaria per la sopravvivenza del capitalismo stesso.
In secondo luogo, la libertà dalla necessità non sta diventando “una possibilità reale” neanche nei paesi “sviluppati” occidentali, e anche in questo caso ciò ha a che vedere con la natura stessa del capitalismo, in particolare con il carattere spiccatamente consumista di quello moderno. Per garantire la sua stessa sopravvivenza, il capitalismo ha infatti il bisogno costante di accumulare sempre più capitale, vendendo una sempre maggiore quantità di merci, merci che per essere vendute devono essere sempre nuove e diverse tra di loro. Per fare ciò, ha bisogno di creare costantemente nuove necessità per il consumatore, creando e vendendo così nuovi prodotti che possano soddisfare le nuove necessità da lui stesso create.
Un esempio su tutti di questa pratica è Apple, una delle più importanti multinazionali capitaliste operanti nel settore della tecnologia: recentemente, infatti, si è scoperto che questa azienda programmava i suoi dispositivi tecnologici per farli invecchiare dopo un dato periodo di tempo. Man mano essi si scaricavano più velocemente, diventavano più lenti, si bloccavano e diventavano infine inutilizzabili, fatto che costringeva il consumatore a comprarne di nuovi ogni due/tre anni. Si badi bene che la tecnologia per far funzionare questi dispositivi molto più a lungo esisteva, ma non è stata utilizzata e si è preferito farli invecchiare prematuramente per creare il bisogno di un dispositivo nuovo, vendere il dispositivo che soddisfaceva quel bisogno e di conseguenza guadagnare di più.
Questo è solo un esempio, ma è stato dimostrato da migliaia di altri esempi analoghi come tutto il sistema capitalista si regga su un costante bisogno di creare nuove necessità. Parlo di necessità (nell’accezione con cui il termine è stato precedentemente utilizzato) per riferirmi alla smania di consumare in quanto, come accennavo prima, il consumo costante di beni è diventato un’imposizione esterna perché una volta che questi beni, prevalentemente inutili o quantomeno di trascurabile importanza, sono acquistati e consumati dalla stragrande maggioranza della comunità essi assumono una rilevanza fondamentale ai fini dell’inclusione sociale, e ciò porta a una inevitabile tendenza al conformismo e al consumo compulsivo.
La libertà dalla necessità, in una società dove se ne producono sempre di nuove e dove il soddisfacimento di esse tramite il consumo diventa esso stesso una necessità, si trasforma nel suo opposto, ovvero nella più completa e annichilente schiavitù.
Che fare?
In sintesi, abbiamo capito che:
- Nell’odierna società capitalista, è prevalente un
sentimento di rassegnazione e accettazione dello status quo (definibile come “realismo capitalista”) e la mancanza
di una prospettiva alternativa rende priva di senso la libertà stessa. - L’accettazione dello status quo di un determinato periodo storico come assoluto e come
l’unico possibile è definibile come ideologia, e il “realismo capitalista”, in
quanto ideologia, non è vero in assoluto e giustifica il potere costituito. - Il capitalismo si prefigge di soddisfare le necessità
materiali (come ad esempio i beni di consumo) non i bisogni innati (come ad
esempio la libertà); nel capitalismo non è possibile nemmeno la libertà dalla
necessità in quanto se ne creano sempre di nuove, esso ci riduce dunque in uno
stato di schiavitù.
Avendo compreso alla luce di tutto ciò le inquietanti caratteristiche della moderna società capitalista, ma avendo al contempo imparato che esse sono soltanto frutto di un determinato periodo storico e non sono immutabili ed eterne, rimane ora solo da chiedersi: che fare?
Ebbene, la risposta a questo quesito è tanto banale quanto difficile da attuare nella prassi: dato che questo sistema è retto e giustificato dall’ideologia del “realismo capitalista”, che con la sua pretesa di universalità sta privando di senso la libertà, come sostenuto anche da Marcuse, l’unico modo per scardinarlo è rimettere in movimento il motore della storia, ovvero riacquistare quella tensione ideale teorizzata da Gentile immaginando e costruendo un’alternativa, ragionando sulla quale riconquisteremo finalmente la libertà di pensare.