di Livia Maceratini, I F
In occasione del Novantesimo del Giulio, venerdì 27 ottobre l’Aula Magna ha risuonato di un’armonia di vecchia data. A chiusura del concerto pomeridiano c’era infatti un ospite immancabile, ovvero il “Coro Franco Potenza”.
Forse non tutti ne sono a conoscenza, ma il suddetto è probabilmente uno dei progetti più riusciti del nostro liceo, che ha riempito i cuori di un gruppo di studenti – pieni del pop di Battisti, Venditti e Baglioni – con le melodie di secoli andati.
Per ripercorrere la sua storia torniamo indietro nel tempo al 1972. In quell’anno un professore di italiano, che già aveva fondato una filo-drammatica con alcuni ragazzi proponendosi di rappresentare e reinterpretare commedie di vario genere e le tragedie greche, decide di mettere in piedi “My Fair Lady”, spettacolo che includeva l’esecuzione di alcuni brani musicali. Così, il professore comincia a reclutare tra gli studenti degli appassionati performer per la commedia, e in questa ricerca non può rimanere indifferente alla notizia che a scuola è presente la figlia del perito maestro di canto corale Franco Potenza, l’insegnante decide subito di coinvolgere nei suoi progetti teatrali. L’idea è incerta, azzardata: un maestro che ha sempre e solo lavorato con professionisti chiamato a far appassionare degli adolescenti dilettanti, ignoranti se si parla di madrigali e polifonie, che si perdono davanti a un pentagramma? Sembra un progetto destinato ad arenarsi senza troppe difficoltà. Tuttavia Potenza accetta, entusiasta. E sarà una scommessa vincente.
La prima prova del coro risulta una sofferenza, gli alunni che si presentano si contano sulla punta delle dita e l’Aula Magna è praticamente vuota. Ma non ha senso avere un sogno se ci si ferma al primo ostacolo. Il professore è intenzionato a non rinunciare al suo progetto, così passa alle armi pesanti: girando di classe in classe opera una forma non del tutto seria di ricatto, minacciando con il sorriso gli studenti della loro più grande paura, la bocciatura.
Casualmente, la seconda prova è un successo e gli studenti si riversano numerosi al secondo piano per entrare nel coro della scuola, che così prende il via sotto il nome originale di “Giovanni de Antiquis”; nessuno di loro ovviamente sa di star così cominciando uno dei viaggi più grandi della loro vita.
Scalda il cuore pensare che questa storia dalla coloritura comica ha plasmato un coro che è in piedi ancora oggi, nonostante alti e bassi, le partenze, i ritorni, gli addii e tutto ciò che la fisiologia della vita rende impossibile non capiti. Un gruppo di persone che da cinquant’anni condivide la gioia di un enorme amore per la musica e del cantare insieme, piacere che ormai è una costante della vita dei suoi membri.
Ad aiutarci a raccontare questa storia è uno dei cinque figli di Franco Potenza, Romano, che abbiamo intervistato per l’occasione.
È un piacere avere un caposaldo di questo coro a parlarci di una storia così particolare. Lei come è entrato nel coro?
“Innanzitutto perché ero figlio del maestro, ma ho avuto una spinta di naturale curiosità. Frequentavo il primo liceo, era il ’74, dunque il coro si era già formato da circa un anno e mezzo. Sono stato il primo dei figli a farvi parte: su cinque fratelli in quattro abbiamo siamo entrati nel coro, di cui uno è diventato direttore da quando non c’è più papà, che se n’è andato nel 2011. Nonostante non sia un musicista – sì ha studiato un po’ di tastiera e batteria – ma in realtà fa il medico legale. Infatti il coro quando papà è scomparso non ha voluto sostituirlo con un direttore professionista, quindi abbiamo tentato quest’esperimento con mio fratello che, devo dire, sta riuscendo abbastanza bene”.
Che influenza ha avuto il Giulio Cesare sul coro? Pensa che qualcosa sarebbe stato diverso se si fosse sviluppato tra le mura di un altro istituto?
“Beh, eravamo ragazzi degli anni Settanta, c’era molta politica in quel tempo nelle scuole e molta violenza, molta più di ora probabilmente. Il fatto che sia nato lì sicuramente ha coinvolto un certo tipo di persone: persone con una certa cultura, una certa estrazione sociale, qualcuno che aveva già una sorta di predisposizione al mondo della musica. Il fatto che sia nato al Giulio Cesare forse è stato importante perché è qualcosa che è nata in una scuola, in un liceo, se pure in realtà la scelta del luogo è stata del tutto casuale. Mio padre ha fatto altri tipi di esperimenti di questo tipo a Sulmona, a Capranica e più o meno riscuotevano sempre lo stesso entusiasmo e interesse a partecipare.”
All’interno del coro che atmosfera c’è?
“Tutti i coristi, che erano più o meno tutti a digiuno di questa realtà musicale, hanno trovato un grande entusiasmo nello scoprire questo campo della musica, una novità che coniugava la cosa artistica ad un aspetto sociale. Era divertente stare insieme tra ragazzi, abbiamo fatto molte trasferte tra cui una particolarmente bella a Mantova, dove siamo andati con due pullman perché eravamo tantissimi. Anche adesso c’è grande solidarietà tra noi, grande affetto; è ovvio poi che negli anni ci siano periodi migliori e periodi di allontanamento, però la nostra amicizia è sempre rimasta importante.”
Il vostro repertorio è differente da quello di molti cori che si vedono in giro, un repertorio che a ragazzi giovani – non intenditori chiaramente – sa quasi di antico, di dimenticato. Da cosa deriva la scelta dei vostri brani?
“Questo credo che dipendesse dalla volontà di mio padre – esperto del settore e professionista – di diffondere questo canto del 1400, 1500 e 1600 anche tra i giovani, per trasmettere questo patrimonio quando c’erano altri cori che hanno armonizzavano musica popolare più recente o contemporanea. Mettere i giovani a contatto con la polifonia e i madrigali di secoli fa, sconosciuti a tantissimi, era per papà una curiosità a scopo culturale, un esperimento, che alla fine è molto ben riuscito. Io ho imparato negli anni che la musica è tutta valida se mi piace, che sia classica, pop, jazz, orchestrale o a cappella.”
Dopo tutti questi anni i concerti, il cantare in pubblico porta ancora una grande emozione o ci avete fatto l’abitudine?
“Ci porta moltissima, moltissima emozione. Ultimamente c’è anche chi, per il passare degli anni e la stanchezza, chiede di non fare concerti perché gli viene l’ansia. Quell’ emozione, che ai concerti ci fa dare di più, tirare fuori aggiunte dall’anima, quella tensione emotiva che nasce dall’esibirsi in pubblico. Certamente l’esperienza aiuta, mi ricordo che da ragazzo prima dei concerti provavo terrore allo stato puro, perché anche se sei protetto dal gruppo hai un senso di responsabilità, hai timore di sbagliare, di misurarti con un pubblico. Per esempio, anche quando ho fatto quel pezzo da solista al concerto avevo paura – io non avevo mai fatto il solista; ci sono volte in cui mi ritrovo lì davanti al pubblico e mi chiedo ‘E ora che faccio?’. Insomma, è una tensione che c’è sempre, ma tutti gli anni di milizia corale aiutano a sfangarla quando sei lì”.
Avete dei rituali pre o post concerto?
“I primi anni avevamo una cosa che chiamavamo lo ‘scongiuro’, in cui ci mettevano in cerchio tenendoci le mani e gridavamo un in bocca al lupo perché ci portasse bene. Adesso non abbiamo particolari riti, a parte alcuni soprani che portano le caramelle prima dei concerti, o le pacche sulla spalla di incoraggiamento ai solisti da parte dei miei colleghi tenori.”
Qual è la cosa che secondo lei ha fatto sì che il coro sia rimasto in piedi così tanto tempo?
“Credo che i due motivi per cui siamo ancora qui siano semplicemente perché ci piaceva cantare e farlo tutti insieme. Quando fondi qualcosa che nasce con ragazzi di 16,17, 18 anni e va avanti nel tempo i giovani crescono, hanno la loro vita e i loro sviluppi familiari, sociali, professionali, per cui il coro è stato suscettibile a tutte queste variazioni. Tuttavia rimane il fatto che nel momento in cui è morto papà ed eravamo rimasti un gruppo di una ventina (paradossalmente adesso siamo anche più di prima) c’è stata questa volontà di proseguire: forse per mantenere la memoria di ciò che aveva fatto mio padre, ma anche di quello che avevamo fatto noi, volevamo preservare l’esperienza e i ricordi che avevamo accumulato negli anni. E poi è cominciata una nuova epoca da quando dirige mio fratello, il coro ha cambiato nome in Franco Potenza ed è cambiato lo spirito, pur mantenendo l’affetto che c’è sempre stato tra noi; sta andando abbastanza bene tanto che recentemente sono tornati coristi che se ne erano andati da molti anni. Essendo meno pressati dal lavoro ed avendo più tempo adesso si recupera il gusto di stare insieme, di fare ciò che ci piace.”
Sono le parole della dedizione e della devozione all’amicizia quelle di Romano, membro di un coro che nasce come tale, ma che da gruppo di studenti costretti a cantare da un professore si è trasformato nella più grande famiglia che sia mai nata al Giulio Cesare.