di Thea Ceccarelli, II G
Il proemio al libro secondo del De rerum natura si apre con la vivida immagine di un mare in turbinosa tempesta. Un mare del quale è preda un’imbarcazione che si affanna fra le impetuose onde. Tale scenario di inquietudine è introdotto dall’aggettivo «suave»: dolce, scrive Lucrezio, in quanto siamo spettatori su terra di quel patito travaglio che rafforza la gaiezza della nostra quiete.
La rincuorante e serena sicurezza di chi osserva, al confronto del rovinoso fermento di chi pena nella tormenta, è assimilata all’imperturbabilità del saggio, il quale, astraendosi dal cieco e irrazionale scompiglio delle vicende umane, le contempla dall’alto della propria posizione.
«Gli elevati templi sereni, saldamente edificati dalla dottrina dei sapienti» sono in antitesi con la pochezza morale della Roma del I secolo a.C. Una massa errante mossa da un’illimitata bramosia di potere e smania di ricchezza, pseudo valori, oggi ancora più radicati nella nostra quotidianità. In fondo, parafrasando due celebri canzoni di Sorrenti e Battiato, siamo tutti figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro.
«O misere menti degli uomini, o animi ciechi!» che hanno smarrito nelle tenebre della vita quel poco che è veramente necessario, la via che insegna a rifuggire il dolore.
Secondo l’ideale epicureo la risposta ai turbamenti sociali è la morigeratezza dell’equilibrio di una vita semplice, fondata sulla solidità di certezze rassicuranti, quali la condivisione dei medesimi interessi filosofici e un’intima e pacata φιλία, coltivata nella pace di un Giardino, alieno alle trepidazioni dell’animo umano.
Lucrezio descrive con delicata e suadente dolcezza una natura idilliaca che ospita la serenità di un gruppo di amici, accolti nella quiete di un grande albero su un soffice e verde prato puntinato da graziosi fiori, lungo il quale fluisce un limpido ruscello.
La felicità è un sentimento cinetico, labile e breve, insegna Epicuro. Un subitaneo godimento espresso dalla gioia e dalla letizia che si può carpire nello stato di ἀπονία e ἀταραξία dunque attraverso l’emancipazione dalle paure irrazionali, dal dolore e l’inquietudine.
Forse perché sono incommensurabilmente lontana anche solo dal riflesso della saggezza, o forse perché ancora non ho imparato a vivere e magari mai imparerò, mi chiedo come sia possibile esistere senza lasciarsi travolgere dall’impeto della passione.
Come nutrire una φιλία e alimentare quell’amicizia, massima espressione di complice lealtà, evitando di rimanere compromessi in una forma d’amore incondizionato? Come non esultare nei successi o struggersi nei dispiaceri?
Ci si può dire acquietati dalla bucolica pace del Giardino, ma non volgere lo sguardo oltre quando così piccoli dinnanzi all’immensità di una cima innevata sentiamo venir meno il respiro?
«Che cosa sono gli uomini in confronto alle rocce e alle montagne?».
Si può essere paghi rinunciando a lottare e tribolare in nome di un ideale?
È vivere galleggiare e rimanere in superficie?
Valgono il rischio di non risalire i meravigliosi colori che animano il fondale marino e saziano la vista e il cuore.
Nella mia mente riecheggia il motivo della tempesta, rimasto scalfito con forte efficacia espressiva e suggestione. È possibile assistere alla sofferenza e non rimanere coinvolto nel dolore?
A tal proposito è interessante la visione di Remo Bodei presentata nell’ introduzione a un saggio di Hans Blumenberg relativamente topos naufragio con spettatore.
Il punto di rottura più reciso con la concezione di Lucrezio si sviluppa a seguito della rivoluzione copernicana ed è esemplificato nella filosofia di Pascal.
Con la nuova teoria scientifica l’uomo si sottopone a un ridimensionamento della propria importanza ontologica. La precarietà è assunta come tratto predominante della nostra esistenza. Vana è la ricerca di una visione privilegiata in un universo che ha perduto il suo centro e per il quale la terra rappresenta una minima entità buia e marginale.
Eludere il rischio è inefficace, il comportamento razionale consiste nell’accettare la scommessa più alta, una speranza rischiosa nell’esistenza di Dio.
Non è verosimile considerare la condizione altrui avulsa dalla nostra. Viviamo tutti in alto mare aperto, in balia della sorte.
«Homo sum, humani nihil a me alienum puto» scrisse Terenzio intorno al 160 a.C.:
«sono un uomo, niente di ciò che è umano mi è estraneo». Lo sento anch’io.