Una foresta in inverno.

Raccolta di due poesie

di Marco Occhiuto, II C

Crepuscoli invernali

Dea godono i templi acherontei
–che la notte ha sul crine, lucente, 
lei, olimpica icona degli dèi –.
Sulle bianche gote un ruscello fluente

va morbido, di pianto di cristallo. 
Si offusca – lo vedi? – il sorriso materno.
Rosso non è più l’astro, di corallo. 
Tra trame spente ora cade l’inverno

e sui meandri cittadini riarse 
numeri le foglie – le divine pupille
abituate al sole, alle stelle apparse, 
non godono più le dolci faville –. 

‘Fa buio presto, apprestati a tornare!’,
bisbiglia eco, di materno orgoglio, 
sfuggita chissà come a quel tuonare
forte della porta. In mano ho un foglio 

– ritma un’umile e scialba poesia –;
i geloni mi screpolan le mani.
Vado sorridendo, e d’una fantasia:
cerco due amici, o amori lontani:

pezzi del puzzle della giovinezza! 
bei tasselli che ricorderò al tramonto
– caduti petali di giovanile ebbrezza…–,
quando la vita si farà racconto.   

Tacciono al freddo gli svaghi ridenti, 
crepuscolarmente luce cedendo 
-caramella fissa, tedio tra i denti-, 
l’avaro fiore, candido cadendo. 

Di calore s’inebria ora il casolare,
odorino amaro sale di castagne; 
nel cuore, ricordo dolceamaro il mare.
D’un candore pauroso le montagne. 

Demetra alla terra manda il suo pianto. 
E i liberi agi, e i cuori sciolti e i sogni
e i soli scioglienti, miri con rimpianto. 
E tu un passato che non viene agogni. 
(E lo guardi, lacrimando, di lontano…
in mano rosseggiante tieni un fiore).

‘Sarà lungo l’inverno, fanciullina?’ 
esce la voce, mista all’aria, piano. 
(Ti ciondola del vestitino un lembo…)
E tu alla pioggia danzi, birichina, 
e nella mano ti si scioglie il tempo.

La nuova stagione (e i suoi rimpianti)

La pioggia allatta ogni foglia!
il cui bordo spande incauta voce 
cigolante sussurrante al vento
per la tacita selva – la croce

di nostalgici ricordi. Gocciola 
la foglia, e gocciola la lacrima;
e un fiore qua, uno là, candido cade
su fluente guancia od occhio inumidito. 

Le braccia intrecciate innamorate 
al riparo dai geli imperversanti 
nel brivido pungente sulla pelle 
nel cielo buio di stormi lontananti. 

Chiuse e morte son le giornate delle 
alchimie e dei giochi e degli inganni, 
e degli amorosi giochi, e dei fulgenti
-sul blu sciabordare –, limpidi soli. 

E, soli, – alla battigia molle gli occhi –,
odore era il nostro della giovinezza.
Io – non ti dissi – ai pavidi rintocchi
udivo di più perdersi l’ebbrezza,

assaporavo separarci il tempo;
e te dolcesorridente! che m’eri
davanti, al celeste musico lembo, 
vedevo resa – già resa …– ricordo.

Il mio cuore era già qui, all’ombra
d’una sala solo ubriaca di rimpianti; 
a portare in rima la vita non vissuta,
di cadenti lune, e soli declinanti. 

Non torna il tempo delle tue parole.
Certe cose si perdono per sempre. 
E vivono struggenti – loro sole! – 
in foto silenti, in fuggitivi incanti 
i quali ritrae la mente che non erra.

Errasse! invece! non corresse più! 
mi uccidono – non vedi? – i pensieri.
Non corresse più! Morto dai pensieri … 
Cose non godute piangere, di ieri,

piangere di ieri, che destino folle! 
Ogni mio intelletto e felicità hanno,
nel venuto inverno, rigido e molle, 
tenària diva, o notte, o la silente riva.

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