di Livia Maceratini, I F
Sono ormai tre anni che, quando si parla di Disney, questo nome è accompagnato da uno sguardo nostalgico, quasi rassegnato: l’azienda che ha regalato a un pubblico senza età capolavori come Il re Leone, La Sirenetta, Toy Story, pellicole diventate dei classici cinematografici universali, sembra aver perso parte di quella magia con cui ha dominato i media e i sogni di bambini di tutto il mondo.
Ma come è potuto accadere? Passiamo in rassegna brevemente la storia della grande multinazionale e cerchiamo di analizzare le cause del fenomeno.
La Walt Disney Company nasce nel 1923, fondata dai fratelli Walt e Roy Disney, e acquista grande notorietà con la produzione delle prime animazioni, che vedevano come protagonista il topolino Mickey Mouse. Nel 1937 comincia a lavorare al primo lungometraggio a colori, Biancaneve e i sette nani, pellicola dall’ampio successo e che lancerà la Disney nell’industria cinematografica; si tratta della cosiddetta “età d’oro” della compagnia che ha introdotto nelle vite di milioni di famiglie le colonne sonore e le avventure dai contorni magici di classici intramontabili in 2 e 3D come La Bella e la Bestia, Aladdin, Pocahontas, Mulan, Rapunzel, Frozen.
Il fenomeno Disney, oltre che numerosi premi e riconoscimenti, procurò all’azienda incassi della portata di centinaia di milioni, o in alcuni casi miliardi di dollari. Quando poi nel 2006 acquistò l’emergente casa di produzione Pixar, con il suo direttore creativo John Lasseter cominciò a creare quello che diventerà un impero di rilevanza economica colossale, inglobando gradualmente la Marvel, la Lucasfilm e infine, nel 2019, Hulu e National Geographic.
Non che i momenti di crisi le siano mancati, ma la casa di produzione ha saputo ogni volta come rialzarsi grazie a nuovi e sempre più apprezzati film originali. Il pubblico amava i progetti Disney, il loro colore e la loro magia (se escludiamo il disastroso flop de Il viaggio di Arlo, uscito nel 2015). Tuttavia, è all’alba del terzo decennio del 2000 che la Walt Disney company inizia il suo tramonto, un declino che non riguarda solo l’aspetto economico ma anche quello creativo e della pubblicità.
Tra il 2021 e il 2022 la Disney lancia sulla sua nuova piattaforma streaming Disney+ nuovi cartoni, tra cui Luca, Raya e l’ultimo drago, Turning Red, che non riescono a superare i 100 milioni di dollari ma restano su incassi bassissimi, a fronte delle cifre esorbitanti degli anni precedenti e considerate le risorse impiegate nella promozione e nel merchandising da aggiungere ai costi di produzione. A questo flop seguono numerosi progetti dei franchise di Star Wars e della Marvel, sempre meno redditizi e apprezzati dal pubblico o dalla critica. Persino i sequel e i live action (film che rielaborano cartoni animati con persone in carne ed ossa), che riprendono storie e personaggi amatissimi, non ricevono più la stessa risposta.
Sulle ragioni della caduta di questa multinazionale, su cosa ci ha portati a non sentirci più interessati ai prodotti che l’azienda propone, ci sono varie ipotesi. Escludiamo da principio l’idea che i cartoni animati non vadano più per la maggiore, guardando al successo di film come Spiderman: Across the Spiderverse o Il Gatto con gli Stivali 2. Alcuni fans sostengono di non riuscire più a trovare le storie raccontate entusiasmanti: guardando i nuovi film Disney o Marvel o i nuovi Star Wars ci accorgeremo che essi non descrivono il viaggio dei personaggi in maniera diluita e lineare, in un climax che si scioglie nel punto di snodo narrativo con una conclusione ad effetto. No, l’effetto sembra essere l’unica cosa che osserviamo: una fotografia impressionante, frasi e battaglie pazzesche che tuttavia, senza una storyline ben costruita, ci colpiscono e attirano nei trailer ma lasciano un senso di insoddisfazione e incompletezza al termine della visione delle pellicole. Elementi potenzialmente stupefacenti paiono sbattuti in faccia al pubblico per un puro scopo consumistico e senza un criterio che ci permetta di goderceli appieno. Dunque, sicuramente uno degli odierni sintomi del lazy writing degli sceneggiatori della casa di Topolino è proprio questo.
Altri invece lamentano la mancanza di approfondimento non tanto della trama, quanto di un’analisi psicologica dei personaggi. Specialmente negli ultimi film e serie Marvel e Lucasfilm, spesso si sviluppano intrecci narrativi sulla base di personaggi privi di una significativa caratterizzazione o, laddove questa sia presente, di un suo sviluppo adeguato. Questa negligenza nell’ideazione dei protagonisti di una storia non è accettabile né redditizia, in quanto il pubblico non si affeziona ad essi, né si interessa delle loro sorti: semplicemente, non riesce a rimanere colpito dal prodotto. A chi diverte guardare un film se non ci si affeziona ai personaggi?
La Disney, attualmente, si troverebbe dunque in un momento di crisi creativa, una sorta di “blocco dello scrittore” che, secondo molti, è il motivo per cui sta concentrando ingenti risorse sulla ripresa di soggetti e successi di un più luminoso passato, con la commercializzazione di sequel e live action. Ad ogni modo, non si può utilizzare per sempre la strategia del riciclaggio delle glorie passate, e i fan hanno già cominciato a stancarsi del modus operandi della loro casa cinematografica preferita; così almeno dimostra la contenuta riuscita del live action La Sirenetta, uscito l’estate scorsa, il quale non ha raggiunto nemmeno la metà dei guadagni ottenuti dai precedenti film di questo tipo – Il Re Leone e Aladdin hanno superato addirittura il miliardo di dollari al botteghino.
E se da un lato la House of Mouse non sa staccarsi dal passato, dall’altro tenderebbe troppo al progressismo.
A sentir le ragioni di alcuni, lo stallo creativo dell’azienda sarebbe dovuto tra le altre anche a una motivazione economico-politica. Negli ultimi anni, infatti, la Disney ha dichiarato di tenere a prendere parte alla lotta per l’inclusione sociale che soffia come un vento giovanile su tutto il globo ormai: si è schierata apertamente a supporto della comunità LGBTQ+ e contro qualsiasi discriminazione etnico-culturale, con lo scopo di rappresentare la società in modo più veritiero e di dare spazio e voce ad ogni minoranza. Questo è il motivo per cui la società ha cominciato a criticare e autodenunciare i suoi stessi film che, progettati in momenti storici precedenti, non presentano le accortezze di quelli scritti al giorno d’oggi a giudizio di taluni creatori; in aggiunta a ciò Karey Burke, presidentessa della Disney’s General Entertainment Content, ha annunciato l’intento che entro la fine dell’anno almeno il 50 % dei personaggi Disney appartenga a minoranze etniche o alla comunità LGBTQ.
Questa forte attenzione all’ideale e al politically correct ha generato divisioni nel pubblico Disney: da un lato c’è chi preme per rendere l’industria inclusiva, dall’altro chi invece non tollera che nei rifacimenti dei classici dell’ azienda stessa si adotti un “revisionismo buonista”, che toglie alle opere Disney una parte della loro essenza originale; infine, c’è quella stragrande parte dei fan che vorrebbe solamente tornare a vedere lungometraggi che li appassionino come i capolavori che la Casa di Walt ha regalato loro in passato, politicamente corretti o meno.
Perché in fondo ciò che ha fatto amare a tutti le pellicole Disney era quel pizzico di magia, di pura e limpida meraviglia che risvegliano in grandi e piccini. Quella magia che ci ha fatto sognare di volare sopra Londra fino all’isola che non c’è, che ci ha fatto navigare oceani, sconfiggere mostri, trovare il bene negli altri e in noi stessi, e in tutto ciò che all’apparenza ci appare oscuro e impossibile.
Walt Disney ha colorato l’infanzia di tutti noi e adesso sembra si stia sbiadendo la sua tavolozza… Riuscirà a stupirci ancora negli anni che verranno? O dovremo assistere alla fine di un’era?