di Rebecca Sticchi, III B

La distinzione tra l’uomo e l’animale appare banale: “Il pensiero!” è la risposta lampante che risuona da secoli e secoli e sembra porre un punto definitivo alla questione, eppure dietro a tale concetto si insidiano dilemmi che, fin dai tempi dell’antica Grecia, attanagliano l’uomo e lasciano vuoti incolmabili. Il pensiero, o l’intelletto che dir si voglia, rischiara la quotidianità e proprio di fronte alla consapevolezza di quella schiacciante distinzione con il resto del mondo pone il quesito del senso della vita.

Nelle “Operette Morali” Leopardi evidenzia come già l’antica sapienza greca avesse colto la pericolosità annessa al carattere più proprio dell’uomo, ovvero la consapevolezza, e non a caso fosse approdata a un primo pessimismo, sorretto dalla massima del “meglio non nascere” cantata da Mimnermo; “Edipo re” poi è forse la prova più schiacciante tra i resti della cultura greca della tragicità della conoscenza che appare indissolubilmente legata alla sofferenza.

Secoli dopo Leopardi, che del suo pessimismo fa una chiave di imperscrutabile analisi della realtà, getta nuovamente luce sulla vera natura dell’uomo spogliandola di ogni sovrastruttura e illusione, lasciando soltanto quella dolorosa tensione verso l’infinito e la felicità che è appunto l’essenza stessa dell’uomo. Tale essenza, chiamata volontà, viene assunta da Schopenhauer come principio primo di ogni essere esistente sulla Terra e governa ogni relazione in base al principio dell’egoismo; la volontà dunque, che Galimberti definisce la “verità della vita dell’individuo”, non ha alcuno scopo se non l’eterno perpetuarsi di se stessa e condanna l’uomo, essere limitato e imperfetto se visto nella propria individualità, alla perenne tensione verso l’infinito, verso il più grande inganno che è quello della felicità. L’uomo diventa allora il più sofferente tra gli esseri viventi proprio per la capacità di conoscere la sua “verità” e la consapevolezza della sua condizione diventa il nuovo snodo per la ricerca del senso della sua vita.

La strada più immediata e consumata sembra quella della negligenza e delle illusioni, quella che

Seneca rappresenta in modo schiacciante nel “De brevitate vitae” con l’immagine degli “occupati”, ovvero gli uomini comuni che si trascinano, frettolosamente e sotto il giogo dell’angoscia, tra un’attività e l’altra evitando l’otium e la riflessione. Tuttavia l’uomo che vive in tal modo, sempre teso al futuro e concentrato esclusivamente sul soddisfacimento del bisogno imminente, che si circonda di rumori per non sentire lo spaventoso e frustrante silenzio del proprio animo e che si illude di potersi alienare da sé, altro non è che la più esplicita rappresentazione della volontà di Schopenhauer, della “verità” dell’individuo; così l’uomo, cercando di fuggire da se stesso e di combattere la propria essenza, ricade ancora più profondamente nella consapevolezza della sua verità che non può sopprimere o ignorare. Perciò il tentativo di seppellire il proprio essere senza averlo prima abbracciato, avendolo soltanto visto ma non conosciuto, non può che alimentare, dopo la breve ed effimera sensazione di felicità, lo sconforto dell’eterna corsa nel vuoto.

Nel breve saggio “L’arte di essere felici” Schopenhauer, introducendo il carattere acquisito, propone come unica via possibile per una vita serena quella della conoscenza e dell’accettazione di se stessi. Come aveva tentato di fare Leopardi smascherando la vita da tutte le false illusioni, anche Schopenhauer vuole prima di tutto porre l’uomo di fronte a se stesso, renderlo consapevole della propria natura e dei meccanismi della volontà che lo guida; soltanto in questo modo appare possibile, o almeno pensabile, il tentativo di superamento della propria condizione e di umile ricerca della tranquillità. La costruzione del proprio “io”, ovvero quel tessuto di relazioni e azioni che caratterizzano l’uomo come “animale sociale”, deve porre le proprie fondamenta nell’essenza dell’individuo dal momento che essa non può essere estirpata e non esiste alcun tipo di alienazione dalla propria natura; non si tratta dunque di una fuoriuscita da se stessi, che è stata svelata come vana e di breve durata, bensì di una riconciliazione che, al pari della letteratura per intellettuali come Calvino e Vittorini, deve abbandonare qualsiasi visione edulcorata e idealizzata della realtà per fronteggiarla nella sua schietta e forse amara verità.

La consapevolezza della propria essenza, quindi di nient’altro che della propria sofferenza, è l’arma più potente contro la “verità dell’individuo” in quanto la affronta con i suoi stessi mezzi e non ne diventa succube, rendendo possibile per l’individuo sfuggire ai meandri di vane ricerche e speranze senza esito.

Pertanto l’individuo che guarda al mondo rinunciando a qualsiasi illusione di felicità eterna è il germoglio del seme dell’accettazione e della consapevolezza, che ha ben chiare quali siano le sue possibilità e legittime aspettative e che non spreca risorse in un’inutile lotta contro se stesso.

Quest’uomo ha abbracciato il suo dolore e, sebbene si sia trovato di fronte all’irrazionalità della vita, lo ha trasformato nel suo motore.

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