di Sofia Ortolani, III B
Ora potrai riposare per sempre,
Stanco cuore mio. L’ultima illusione è svanita,
(l’illusione) che io mi considerai eterno. È svanita. Mi accorgo che,
in noi creature sensibili alle suggestioni dell’immaginazione,
non la speranza, (ma) il desiderio si è spento.
Riposa per sempre. Ti sei turbato molto.
Non hanno alcun senso
I tuoi turbamenti, né la terra è degna
Di preoccupazione. La vita si compone
Di dolore e tedio, mai nient’altro; e il mondo è (solo) fango.
Ormai trovi quiete. Dispera
Per l’ultima volta. Il fato non fece altro dono all’umanità
Che la morte. Ormai disprezza
La natura, il brutto
Potere che, occultamente, come un tiranno (ci) condanna ad una comune sofferenza,
e l’infinita precarietà del tutto.
Analisi:
“A se stesso” è un componimento legato all’ultima fase della produzione Leopardiana, comunemente nota come “Ciclo di Aspasia”, che rappresenta la completa maturazione concettuale e poetica dell’autore. Il titolo, come è spesso vero per il Leopardi, è didascalico: il poeta rivolge le parole che compongono i 16 versi a se stesso, al proprio cuore, attraverso l’apostrofe al verso 2 “stanco mio cor”. Tale scelta non rappresenta certo una novità letteraria, e soprattutto Petrarca svolge per Leopardi la fondamentale funzione di modello, al tempo stesso fonte autorevole di spessore poetico e “idea limite” da innovare.
Con la forza espressiva di un oracolo, ma la certezza assoluta della scienza, il poeta apre il componimento rivolgendo alla propria psychè la frase “Or poserai per sempre”. L’impiego del tempo futuro, congiunto al complemento di tempo continuato per sempre, conferisce all’affermazione un valore assoluto: assoluta è la verità delle parole, inconfutabili e corroborate nei versi seguenti, come al sesto verso grazie alla perentorietà dell’imperativo “posa”, ma assoluto è soprattutto il significato delle parole stesse. Sin dal primo verso, infatti, Leopardi proietta il suo interlocutore (se stesso e il lettore) in una dimensione eterna, di tempo e spazio assoluti, opponendo l’”eterno” dell’”inganno estremo” (v 2-3) all’”infinita vanità del tutto” (v 16).
Il primo oggetto in cui per Leopardi si manifesta l’eterno è proprio se stesso. L’uomo ambisce ad un piacere infinito, e la sua capacità immaginativa lo illude di poterlo ottenere. Grazie all’immaginazione egli gode non di un’autentica felicità, ma di un’infelicità velata, che lo spinge alla vita activa, in cui trova espressione concreta il suo inesauribile desiderio di potenza. Tuttavia la delusione amorosa, motore propulsore della silloge, obbliga il poeta a misurarsi con il necessario limite umano, con la sua precarietà e inadeguatezza, e desta in lui una nuova sensibilità, quella del nulla. La vitalità che traspare dalle poesie precedenti appare ora a Leopardi come “L’inganno estremo” (v 2), suggestivo e capace di placare l’animo, ma privo di sostanzialità fisica- in quanto l’uomo deve confrontarsi con la morte, con il deterioramento della carne, che il poeta sperimenta non solo attraverso la propria malattia, ma anche attraverso la morte di Silvia, “da chiuso morbo combattuta e vinta” (“A Silvia”)- e metafisica- il desiderio umano è inappagabile, poiché compiendo una scelta l’individuo preclude a se stesso le infinite possibilità che costituiscono l’oggetto stesso del desiderio. Ribaltando un’espressione di Hegel, si può dire che Leopardi “non riconosce (più) il rappresentato come un vivente”: la frattura tra la natura (il mondo, la possibilità) e la ragione (l’io lirico, il desiderio) è divenuta insanabile. Pertanto, il poeta acquisisce contezza “non che la speme, il desiderio è spento” (v 5): tale maturazione è un passaggio fondamentale perché testimonia la perdita di vitalità (cioè non azione, come l’uomo si illude, ma desiderio, come l’uomo è), quindi l’alienazione del poeta dalla propria umanità, il rifiuto per questa. Luporini, nel suo saggio “Leopardi progressivo” afferma che “se la cessazione della speranza è la disperazione, la cessazione del desiderio è la morte nella vita”. La condizione dell’uomo che rifiuta la propria essenza è peggiore della morte, e di questo è emblematica anche la Saffo presentata nell’ “Ultimo canto di Saffo”: la poetessa greca, in seguito al rifiuto dell’amato, smette di sperare che si possa realizzare l’amore, ma non muore in lei il desiderio che ciò avvenga, e proprio questa contraddizione la spinge a togliersi la vita. Il suicidio di Saffo è un atto coraggioso, un’assunzione assoluta della propria umanità, in completa antitesi con la “morte nella vita” dell’ultimo Leopardi. Conseguenza di questo smarrimento intellettuale e spirituale è la stanchezza del cuore (v 2 “stanco mio cor”): l’infinito non si figura più per Leopardi come un “dolce naufragare”, capace di cullare l’animo “spaurato” del poeta grazie all’indefinito che lo evoca (“L’infinito”, v 15 e 8), ma come nulla, rispetto al quale l’io lirico è impari. Da qui s’intende la scelta di Leopardi per un lessico aspro e concreto, specchio di una concezione materialistica della realtà, che non lascia spazio a forze spirituali (“Perì” v 2,3, “fango” v 10), per suoni duri (consonanza “dispera” v 11, “disprezza” v 13), il rifiuto per gli aggettivi, che adornerebbero l’oggetto poetico sottraendolo all’arido vero, e l’assenza di un confronto con il mondo esterno- il pastore errante dell’Asia si rivolge alla luna e alle sue greggi, ne “Il passero solitario” fa del passero il suo termine di paragone, “L’infinito” concepisce la speculazione a partire dalla vista dell’ambiente circostante… in “A se stesso” emerge la solitudine del poeta nel suo dolore esistenziale. Rispetto ai canti precedenti, che offrono una soluzione nell’illusione o nella rimembranza, cioè il recupero memoriale, in questo componimento il poeta dà prova della sua completa e coraggiosa disillusione: non vi è soluzione all’infelicità poiché l’uomo stesso è inganno. In questo Leopardi è vicino alla sensibilità classica (più di quanto lo fosse nell’ideale del classicismo laico), consapevole della natura effimera dell’esistenza umana, come rivela, ad esempio, il celebre verso di Pindaro “sogno di un’ombra è l’uomo”. La conclusione cui Leopardi giunge è di un nichilismo spiazzante, che schiaccia l’intera realtà: “Non val cosa nessuna” (v 7).
Nei versi successivi la speculazione poetica riveste la totalità del reale, e l’io lirico si erige a io universale. Schopenhauer afferma che “la vita è un pendolo tra il dolore e la noia”. Leopardi, che pure mai aveva letto il filosofo prussiano, ne condivide il giudizio sull’esistenza, che viene descritta in questo componimento come “amaro e noia, altro mai nulla” (v 9,10). Al tribunale dell’intelletto, colpevole risulta il fato (v 12): non offre all’uomo alcuna certezza, alcuna realizzazione del suo desiderio di potenza, se non quella della morte (“non donò che il morire” v 13). La morte è l’unico elemento determinante, essenziale, non solo nella vita dell’uomo, che nasce per morire, ma nell’intera realtà, che scorre, fluisce inesorabilmente senza lasciare traccia di sé: “tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia” (“La sera al dì di festa”). Il tempo è un insieme indifferenziato e disorientato di immagini, momenti che esistono solo per chi li vive (quindi non esistono, un tempo meramente interiore è irriconoscibile e inspiegabile), la storia è una precipitosa corsa verso il nulla, verso “l’infinita vanità del tutto” (v 16). Eraclito afferma in un frammento: “Il tempo è un bambino che gioca a dadi./ Di un bambino è il regno.” L’irrazionalità del fanciullo, che si nutre della sola immaginazione, è per Leopardi un “potere ascoso”: ciò non vuol dire semplicemente che il potere che governa il mondo non si manifesta con chiarezza all’uomo, ma rimanda alla mancanza di un criterio oggettivo, scientifico, razionale di tale logos. D’altronde la parola greca per verità, alètheia, si ottiene dalla negazione del tema del verbo lanthano, nascondere: è vero tutto ciò che è in vista, è vera la realtà non nascosta alla ragione umana. Leopardi nella parola “ascoso” racchiude il suo intero impianto concettuale, l’inconsistenza metafisica del mondo. Oltre al linguaggio, anche la sintassi esprime l’asistematicità del reale, attraverso periodi brevi, frasi collegate per paratassi (che esclude la possibilità di ordinare logicamente e gerarchicamente il periodo), ed enjambements frequenti, come “amaro e noia/ la vita” (v 9,10), “il fato/ non donò che il morire” (v 12,13).
Eppure, il bambino “regna”, il potere ascoso “impera” (v 15), condannando l’umanità “a comun danno”. Nel “Canto di un pastore errante dell’Asia”, il protagonista (alter ego di Leopardi) chiede alla luna: “Se la vita è sventura/ perché da noi si dura?”. La luna non risponde, ma il pastore-poeta nell’ultima strofa ipotizza che il suo dubbio esistenziale possa trovare risposta nello straniamento (cioè guardare il mondo da una prospettiva diversa). In realtà, il silenzio della luna, quel silenzio fondamentale nella poetica leopardiana che già ne “La sera al dì di festa” ricopriva ogni cosa (“tutto è pace e silenzio e tutto posa”), anticipa la quies (latino per quiete, riposo, da cui il verbo “posare” di cui Leopardi fa uso generoso in questo componimento) del nulla. L’uomo non può far altro che accettare con lucidità e coraggio “l’infinita vanità del tutto”.