Ritratto del professor Panizzon.

di Sofia Liverani e Livia D’Amico, IF

Ogni giorno noi alunni incontriamo i nostri professori e passiamo buona parte del nostro tempo insieme a loro. Forse non molti di noi si sono chiesti quali vicende abbiano portato le nostre reciproche vite ad incontrarsi nelle classi del nostro liceo.

L’idea di intervistare i professori è nata a seguito di un corso che chi scrive ha frequentato, il cui tema era il rapporto tra docenti e studenti; l’intervento particolarmente interessante della professoressa Smeragliuolo, che descriveva la sua visione della scuola e degli studenti, ha suscitato il desiderio di capire per quale motivo gli insegnanti decidano di intraprendere tale carriera e il percorso che li porta a compiere tale scelta.

L’intervista che segue sarà la prima di altre che permetteranno di scoprire chi sono davvero le persone che ci guidano nella formazione e nella crescita personale.

Incontriamo oggi il professor Carlo Panizzon, docente di latino e greco.

Professor Panizzon, vorremmo iniziare chiedendole da quanti anni insegna e da quanto tempo in questo liceo.

Ho cominciato a insegnare da quando mi sono laureato, quindi nel settembre 1988; ma in questo liceo dal 2015.

Quindi da subito.

Sì, ho fatto una serie di brevissime supplenze in quell’anno scolastico, ma poi ho avuto un intero anno di disoccupazione.

Quando si è trasferito a Roma?

A Roma ci sono stato in vari periodi della mia vita; questo, dal 2015, è il mio terzo “periodo romano”. Ero già stato a Roma per il dottorato dal 1992 al 1994. Sono tornato poi a Roma dal 2007 al 2010, periodo in cui insegnavo al Liceo Augusto. Il mio rapporto con Roma non è legato all’insegnamento, è stata una mia decisione venire qui.

Perché Roma? Per passione?

Per passione, assolutamente. Proprio perché, come dice Dante, “dai primi capitoli del libro della mia memoria” ho sempre nutrito una grande passione per Roma, una passione che si è manifestata così presto che io stesso mi chiedo da che cosa sia nata.

Quindi sin dall’infanzia?

Sì, dalla prima infanzia! Ho ricordi molto antichi, di ore passate a contemplare una cartina di Roma, patetica e commovente, perché pensata per i turisti degli anni ‘50: i monumenti più importanti erano rappresentati con dei disegnini ingombranti che coprivano gran parte della cartografia! Però erano molto evocativi. Poi, quando avevo dieci anni, nel 1973, i miei genitori mi portarono a Roma in un viaggio per me mitico di circa dieci giorni. Volevo assolutamente vedere Roma, temendo allo stesso tempo che si rivelasse una delusione; ma una volta arrivato ne sono rimasto incantato! Mi ha affascinato anche la sua grande varietà di tipi umani, perché Padova (città natale, ndr.) in quegli anni era una città in un territorio ancora pressoché rurale e l’industrializzazione sarebbe arrivata soltanto negli anni ‘80. All’epoca il Veneto era molto semplice e tranquillo e quando sono arrivato qui a Roma, con mio fratello e i miei genitori, la città mi è sembrata un luogo in cui girava tutto il mondo: gente di tutte le regioni d’Italia e anche di paesi stranieri. Percepivo la presenza di un movimento completamente diverso da quello di Padova. Poi, inevitabilmente, mi spiazzarono anche la grandezza di questa città e la sua infinità di monumenti. Poi, nel 1992 sono stato ammesso al dottorato a Roma, con mia piacevole sorpresa perché non l’avevo programmato, e così quei due anni a Roma, ormai adulto, consapevole, sono stati meravigliosi per me. Inizialmente non pensavo di rimanere, ma con il tempo ho pensato sempre più: “A Roma bisogna vivere. Se si deve vivere in Italia, bisogna vivere a Roma, non c’è alternativa!”.
Però tutto questo non ha nulla a che fare con l’insegnamento! 

Volevamo chiederle se magari c’è stato un qualche evento, una qualche persona che l’ha influenzata nella sua scelta di insegnare.

No, ma l’insegnamento me lo sento come una “seconda natura”: se vado indietro nel libro della mia memoria, io ho sempre desiderato insegnare. Nel senso che, anche quando ero piccolino, ho sempre avuto il fascino dell’ascoltare un maestro. E ho sempre percepito che è affascinante anche il trasmettere! Ero molto piccolo, ma capivo che era come un desiderio, essere quello che trasmette. Ed è nato in tempi proprio irrazionali, per cui non riesco a spiegarlo. E poi è stata una certezza che ha resistito nel tempo e che non ho mai messo in discussione. Ricordo che, alle scuole elementari, mi hanno fatto fare un compitino: “Cosa farai da grande? Immagina di incontrare i tuoi compagni di classe tra 10-20 anni”. E quindi io ho dovuto rappresentare me stesso come mi proiettavo di lì a vent’anni, e mi sono immaginato come un insegnante!

Ora che ci penso, sì, una persona che mi ha influenzato fortemente c’è stata, la mia professoressa di latino e greco, che veramente fece diventare per me l’esperienza del triennio estremamente formativa. Avevo iniziato il ginnasio con grande impazienza verso l’apprendimento del greco, dato che avevo cominciato lo studio del latino con passione alle medie, ma mi ritrovai a vivere due anni davvero pessimi, anche per via di due insegnanti impreparate che ho avuto; ho visto un contrasto incredibile con il triennio specialmente grazie a questa professoressa, molto esigente ma molto abile nel far sviluppare un senso critico provocatorio, quasi spregiudicato. Era grandiosa nell’andare contro il trattare come modelli indiscutibili gli autori e i testi classici, modello fortemente presente ai miei tempi. La sua idea era di spingerci sempre a cercare noi stessi e tentare di riconoscerci in Omero o in qualsiasi altro autore, perché non avrebbe avuto senso altrimenti leggerli. Per ogni pagina di antologia che ci faceva leggere ci chiedeva “e tu cosa ci hai trovato?”. Era veramente martellante, tanto che ricordo ancora la mia prima interrogazione di Virgilio: fu sugli ultimi versi della prima Bucolica, sull’ultimo intervento di Titiro, quando dice ‘Eh, però, devi andare, ti scacciano, però sta scendendo la sera, potevi almeno fermarti con me questa sera, ti avrei ospitato’. Fu contenta della mia “conoscenza matematica della grammatica”, ma poi rimase stupita quando mi chiese “E a te cosa hanno detto questi versi?”: io, nonostante avessi delle cose da dire, l’avevo ritenuta una cosa indiscreta e quindi le risposi “Ma lei queste cose non me le può chiedere!” (ride, ndr.). Questa è rimasta una cosa molto forte per me, che ogni lettura, ogni opera della letteratura antica deve trovare te, perché ci sei tu dentro, perché ha senso leggerla solo se a te dice qualcosa, oggi, nel 2024. 

Chiedere ai ragazzi oggi una cosa del genere è molto difficile. Ogni anno l’insegnante incontra i ragazzi della nuova prima liceo e sembrano sempre più piccoli; beh, sono sempre più piccoli perché io sono sempre più vecchio, chiaramente (ride), ma hanno anche una crescente immaturità emotiva. Noi insegnanti facciamo sempre più fatica a rivolgerci a voi come adulti. Anche solo il fatto che si dica “domani si interroga”, e metà classe non si presenta, significa che non c’è solidità emotiva. Mettendomi nei vostri panni, mi sembra anche giusto sapere che oggi si va solo a imparare qualcosa di nuovo, o, invece, sapere che devo venire preparato. E quindi accetto l’idea di dirvi ‘oggi si interroga’, ‘oggi non s’interroga’, ma poi il giorno dell’interrogazione viene affrontato in maniera sbagliata.

Però questo per quale motivo crede che si sia arrivati a questo?

Ho solo risposte scontate, quelle ovvie di tutti, cioè che siamo in un mondo esasperato. In tutti gli ambienti, non solo nella scuola, educazione è anche percepire com’è l’ambiente esterno e imparare ad adattarsi ad esso. Nella società di oggi si lascia invece molto spazio all’ascoltare le emozioni irrazionalmente. Non si mira cioè alla professionalizzazione, a un atteggiamento professionale per cui tu debba contenere le tue emozioni e adattarti a un modello unico; ci si concentra invece sui sentimenti personali: stai bene? come va?, ce la fai? Già l’atteggiamento del chiederti ‘ce la fai?’ apre la strada al non farcela!

È come venissimo temprati di meno.

Esatto, non siamo temprati. Però, nell’insegnamento, si potenziano tutte queste cose. Perché noi insegnanti, in verità, dobbiamo stare attenti al vostro comportamento e l’insegnamento non è solo trasmettere informazioni ma anche modificare i comportamenti. In verità, io voglio che voi usciate di qui diversi da quelli che eravate quando siete entrati, da come siete entrati. 

Quindi la formazione non si limita a essere culturale, ovviamente, ma comprende anche la crescita dello studente in sé; quindi alla fine, se non s’interviene anche su questo aspetto, metà del lavoro non viene fatto.

Esatto, esatto. Allora perché insegnare? Perché è meraviglioso plasmare le persone! (ride) È tutto politicamente scorretto. Appunto, vedete che bisogna sempre adattarsi all’ambiente in cui si vive. È giusto riconoscere e accettare che le persone abbiano delle debolezze emotive, ma qui dobbiamo farle superare. Quando ci si dedica intensamente ad uno sport, a una squadra ad esempio di calcio, si dà un valore alla vittoria della squadra e si è pronti al sacrificio. Allora lì l’allenatore può chiedere al giocatore sfinito di continuare. E lì c’è un vero insegnamento, perché si superano le barriere dell’individuo. Invece, nella scuola, ci si chiede di essere sempre comprensivi, anche quando gli studenti avrebbero tutti gli strumenti per superare le difficoltà. La barriera è “riesci a scrivere quattro pagine senza nemmeno un errore di ortografia?”, è tutto quello che chiedo, ma pare che sia insuperabile. E arriviamo dove siamo oggi, con studenti universitari che scrivono le tesi di laurea con gli errori di ortografia.

Tornando alla sua scelta di insegnare, perché proprio al liceo? Perché non invece alle medie o all’università? Principalmente all’Università, data la sua preparazione. 

Data la mia passione per il latino e per il greco, per l’antichità, mi pareva più sensato il liceo. Per quanto riguarda le scuole medie, chiaramente la sfida di mantenere l’attenzione di un gruppo di adolescenti di 11-12 anni è completamente diversa da quella di lavorare con voi. Se insegni per pura passione per l’insegnamento, nasce l’esigenza e la volontà di avere la competenza del sapersi rivolgere a tutti; però appena mi son laureato ho pensato che alle scuole medie avrei dovuto combattere con dei ragazzi e delle ragazze un po’ troppo… ancora in formazione. Ma la voglia di insegnare al liceo è nata anche dall’esperienza del mio triennio. All’interno delle superiori, il triennio è veramente l’età più interessante, perché quando insegni devi sempre rivolgerti ai tuoi alunni immaginando che essi siano più grandi di quello che sono veramente. Per spingere l’alunno a crescere, bisogna rivolgersi a esso come se avesse qualche anno in più, e questo vale per tutte le età. Nel vostro caso, questo permette di rivolgersi a voi come ad adulti già formati, cosa che, in sostanza, voi siete quasi già. Di solito abbiamo questo vezzo di chiamarla “l’età dell’adolescenza”, quando, in verità, voi ne siete già fuori. Spesso, però, quando si parla degli studenti delle superiori, ci si rivolge ad essi come fossero nel pieno dell’adolescenza. Non lo siete. Non avete ancora risolto completamente quel cambiamento psichico che scatta con l’adolescenza, ma siete già adulti. Però siete adulti giovani, adulti inesperti, adulti non formati, e non avete ancora formato la vostra personalità a tutto tondo. Tenendo sempre presente di dover fare quello scatto di età nel rivolgermi a voi, la vostra età mi permette di lavorare come foste già adulti, e diventa un incontro totalmente alla pari. Ma nel contempo rimanete ancora plasmabilissimi. Trovo quindi che questa età offra l’equilibrio migliore per l’insegnante perché lo studente è già abbastanza formato perché esprima idee forti, ben articolate, ma è ancora da formare e da plasmare. Quindi ho scelto di insegnare al triennio sia per ripetere il modello della mia professoressa, anche se penso e spero di essermi molto allontanato da esso, e per il giusto equilibrio che trovo nella vostra età.

Per quanto riguarda l’università, non c’è stato modo di far carriera, ma ho avuto occasione, grazie a un incarico del Ministero degli Esteri, di lavorare come madrelingua di lingua italiana, una volta in Germania, all’Università di Bonn, e una in Spagna, all’Università di Granada. Non ero il docente che fa ricerca e si occupa di tutte le questioni annesse; ero il lettore per studenti di lingue straniere, cioè di tedeschi e di spagnoli che volevano imparare l’italiano. L’ho fatto per nove anni, e mi ha dato numerose occasioni di parlare con gli studenti; ero contento di stare all’università, ma, essendo un incarico a scadenza e sapendo quindi che sarei tornato in Italia, mi ritrovai a pensare che sarebbe stato poi bello tornare a scuola, perché gli studenti universitari non li “tocchi”. Pur essendo ancora studenti, sono già uomini e donne fatti, e per quanto le interazioni con loro siano molto interessanti, ormai loro sanno già cosa vogliono dalla vita. Erano studenti di lingue a cui servivano lezioni di lingue, e sì, trovavo occasioni per educarli, ma era molto diverso da ciò che faccio con voi. Da un allievo della vostra età si possono avere delle reazioni scorrette per un rimprovero, ma in ogni caso c’è una partecipazione vera, la cosa è molto più sentita e partecipata, non passa decisamente inosservata. Lo studente liceale mi sente, si accorge che ci sono, mentre lo studente universitario poteva farmi un sorrisino, mi salutava, e il giorno dopo se n’era già dimenticato. E poi il rapporto tra studente e docente è molto più freddo e distaccato. I professori universitari li puoi anche incontrare una volta, fare un esame con loro, e poi non rivederli più. C’è grande dispersione. Sarebbe molto interessante se a scuola ci confrontassimo nel valutare le opere di Cicerone, le gesta di Augusto o di Cesare, ma siete ancora ragazzini, spesso non avete voglia e alcuni non hanno nemmeno gli strumenti. Ma almeno vi accorgete di me. Devo dire che lo sento un po’ come una missione umana, al di là della missione professionale dell’insegnare il latino e il greco, in qualche modo. Perché c’è comunque il vostro crescere in gioco, il vostro diventare uomini e donne che lavorano, che vivono e che pensano, e questa parte è affascinantissima. E resta. Resta sempre. Ed è molto potenziata rivolgendosi a persone della vostra età, perché è proprio il punto nevralgico della crescita. Poi, invece, ci si perde.

Lei ha detto che imita, o comunque prende come modello, la sua professoressa. Spera di avere lo stesso effetto su di noi?

Certo che sì! Anzi, di più.

Però magari su altri studenti ha avuto l’effetto completamente opposto.

Può essere.

E non ha paura di avere effettivamente questo effetto “negativo” su alcuni suoi studenti?

Che io possa avere un effetto di rifiuto dello studio del latino e del greco? Eh, può capitare. Però, c’è da dire, nei primi anni io non avevo questa possibilità, ma ormai sono vecchio, e questa cosa bella c’è. Ora io ho tanti ricordi di alunni che tornano, con i quali mi confronto. Più passa il tempo, più sono frequenti e più materiale io ho di questa esperienza, di ex-alunni che mi parlano. E l’ex-alunno è sincero, l’ex-alunno parla chiaro, non ha più nulla da dover nascondere o temperare. E ho visto con i miei occhi che ci sono ex-studenti che hanno completamente spazzato via tutto il latino e il greco dalle loro menti, proprio zero assoluto! Ma percepisco comunque che si ricordano di emozioni che hanno vissuto durante le mie lezioni,  cosa che per me è un tesoro ricchissimo, veramente preziosissimo. Poi ci saranno anche quelli che dicono che sono una persona insopportabile, ma non son mai venuti a dirmelo. Ma ricordo di un ex-studente che mi disse “Sì, è vero, mi mise 4 alla versione, ma mi spiegò le sue motivazioni, quindi sapevo come migliorare quel voto!”, tutto contento. Per me è stato un vero tesoro sentirgli dire questa cosa, così adesso so che posso dare 4 con soddisfazione dell’alunno! (ride)

Di Sofia Liverani

II F, caporedattrice, prima paginista, articolista.

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