di Sofia Liverani, I F, e Veronica Angelini, I G
Dallo scorso numero del nostro giornale abbiamo iniziato a pubblicare una serie di interviste il cui scopo è conoscere meglio i nostri insegnanti, comprendere per quale motivo abbiano intrapreso tale carriera e il percorso che li ha portati a compiere tale scelta, cercando di scoprire chi sono davvero le persone che ci guidano nella formazione e nella crescita personale.
Incontriamo oggi la professoressa Laura Correale, docente di latino e greco.
Professoressa Correale, vorremmo iniziare chiedendole prima di tutto da quanti anni insegna e da quanto tempo in questa scuola.
Io insegno da una vita! (ride, ndr.) Ho cominciato poco dopo la laurea; inizialmente ho lavorato per pochi anni in un istituto privato dove mi avevano chiamato a sostituire un’altra docente e lì mi sono fatta le ossa. Dopodiché, ho fatto i concorsi; dopo aver vinto quello a cui aspiravo tra i tanti, ovverosia quello per insegnare latino e greco, che erano le mie materie, sono stata un anno a insegnare in un liceo classico di Ostia; era il 1987-88, il mio primo anno nella scuola statale. Dopo un anno chiesi il trasferimento: all’epoca abitavo dietro Corso Trieste, perciò feci richiesta per il Giulio Cesare. Credo dunque che fosse il 1988-89 quando sono arrivata qui: ero una ragazzina, mi davano del tu, mi dicevano “‘ndo vai te”, scambiandomi per un’alunna; ho visto questa scuola veramente in anni e in situazioni diverse, ho visto sei presidi succedersi, ne ho vista la storia, ne ho visti i cambiamenti. Alla fine non è poi cambiata così tanto, in questi anni.
Perché non ha mai chiesto il trasferimento?
Questa è una bella domanda. Perché non ho chiesto il trasferimento? In parte, certamente per motivi pratici: innanzitutto è un bel liceo. Io volevo insegnare in un liceo classico, quindi non avevo una forte motivazione ad andare altrove. A un certo punto ho pensato di passare al Visconti, che era più vicino ancora a casa ed è un’altra bella scuola. Però, forse, mi sono raccontata delle scuse: la verità è che non me ne sono mai voluta andare, perché, evidentemente, io sono una che si radica. Mi sono radicata qui. Forse ho fatto male, però. Ma sono contenta di essere rimasta.
Per quale motivo ha deciso di insegnare?
Fin da ragazzina, ho avuto un grande amore per la letteratura e per le arti: da subito ho sempre saputo che avrei poi voluto intraprendere degli studi umanistici; che avrei studiato lettere è stata sempre una certezza. Poi, nel mio ultimo anno di liceo, al Mameli, ho avuto un professore di letteratura greca che è stato per me un grande maestro. Con le materie di latino e greco non avevo mai avuto un buon rapporto, perché non avevo ancora incontrato chi me le avesse sapute insegnare, ma questo professore, invece, mi ha proprio aperto anche alla conoscenza del mondo antico. È stato un grande maestro tutta la vita, Franco Serpa, che è morto due anni fa e la sua famiglia ha regalato al Giulio Cesare i suoi libri di letteratura classica; è stato il mio professore di liceo, ma siamo stati poi amici fino alla sua morte all’età di novantadue anni.
Perché non ha poi perseguito la carriera universitaria?
Io mi sono laureata in letteratura greca con una tesi sul Meleagro, una tragedia di Euripide in frammenti; all’epoca forse ancora pensavo che avrei potuto fare la carriera universitaria. Però mi sono resa molto conto subito che una vita di solo studio all’interno di un’istituzione così rigida come quella accademica non faceva per me. Ho sentito, anche un po’ con l’esempio di Franco Serpa, il forte bisogno di insegnare. Insegnare è una cosa che mi è sempre molto piaciuta. Lo studiare e l’imparare per condividere, il trasmettere, il far capire delle cose, mi ha sempre dato una grandissima soddisfazione. Mi ha dato anche tanta rabbia, in quei momenti in cui hai l’impressione di non riuscire a coinvolgere e a catturare gli studenti. La conoscenza e la cultura le ho sempre sentite come una condivisione che sia un impulso alla formazione, alla crescita. Quando vedi gli studenti crescere, capire, cambiare, sviluppare curiosità, conoscenza, senso critico, allora quello è un momento di grande appagamento, perché mi posso dire di essere riuscita nel mio lavoro.
Quindi la soddisfazione dell’insegnamento è anche vedere i ragazzi che crescono.
Ma certo, è una soddisfazione culturale e umana al tempo stesso, vedere il ragazzo che cresce, vedere che certe idee continuano a vivere negli altri. Mi ha sempre affascinato l’idea che la cultura possa trasmettersi attraverso l’insegnamento.
Per lei che cosa sono i ragazzi?
Una cosa che io dico sempre – e chi non insegna ride perché non ci ha mai pensato – è che io sono quarant’anni circa che vivo con persone fra i quindici e i diciotto anni. Decennio dopo decennio, io sono cambiata, invecchiata, mentre i ragazzi hanno sempre la stessa età. Sono “eterni”, i ragazzi; le persone cambiano, non sono mai uguali, ma la loro struttura è sempre quella dell’adolescente. Innanzitutto, ormai ho una conoscenza e una confidenza con le loro dinamiche che in certi momenti mi suscita affetto, condivisione, senso di responsabilità, in certi momenti anche tanta noia – a volte i ragazzi non sembrano mai cambiare. Ma sono contenta, penso che aver passato la mia vita insieme agli adolescenti sia stata una ricchezza ineguagliabile.
Lei certamente ha molta esperienza. Tornando indietro, sceglierebbe ancora la strada dell’insegnamento?
Temo di sì; certamente è un lavoro che ha molte controindicazioni, socialmente sottovalutato, economicamente sottovalutato, ostacolato più che favorito spesso dal succedersi delle riforme, dei governi, dei cambiamenti, purtroppo va detto; negli anni si è avuta l’impressione che ci abbiano messo più i bastoni fra le ruote che non ci abbiano dato la possibilità di lavorare bene. È un lavoro faticoso, molto impegnativo e poco riconosciuto. Tuttavia, io ho amato molto questo lavoro. Farei nuovamente la stessa scelta, penso di sì. Forse farei meglio a fare qualcos’altro (ride). Penso di avere dato una grande parte di me, con tante ombre, con tanti difetti, con tanti limiti che riconosco, ma nell’insegnamento ho messo la mia parte migliore.
Grazie alla sua esperienza, sicuramente avrà incontrato molti ex alunni.
Certo, ce ne sono alcuni con cui ancora sono in rapporti, alcuni sono grandi, hanno figli. Voglio loro molto bene, c’è una grande confidenza. È evidente che quando nasce un rapporto studente-docente – e non succede spesso, è chiaro che la percentuale è minima – resta evidentemente si è creato qualcosa di molto profondo: sono amici, sono persone quasi familiari.
Ritornando all’insegnamento, alcuni lo definiscono una missione. È d’accordo con questa definizione?
Queste frasi enfatiche hanno un che di verità e un po’ di semplificazione. Perché il professore è una missione e non il medico? Penso che ogni lavoro che implica un forte senso di responsabilità umana sia una missione. Perché l’insegnamento lo sia, dipende molto da come è svolto; qualunque mestiere, soprattutto uno che comporta un rapporto con gli altri, può essere definito una missione. Forse, un difetto che si può rimproverare alla scuola è che l’insegnamento può essere un po’ freddo, disumanizzato, sul piano del rapporto; nel momento in cui invece capisci che il lavoro dell’insegnante si fonda su una relazione quotidiana, certo che diventa una missione.
Comunque è una grande responsabilità.
Certo, è una grande responsabilità, e soprattutto non è come lavorare con degli strumenti, bensì con delle persone, persone che vivono una fase di formazione, di crescita, e quindi bisogna anche esserne consapevoli. Ma proprio questo è bello, l’aver a che fare con persone in formazione ti da grande motivazione. Però io non avrei mai potuto insegnare ai bambini piccoli.
Come mai?
A me piace lo scambio intellettuale con gli studenti. Quando gli studenti sono poco reattivi, mi sento frustrata sul piano intellettuale. A me piace molto lo scambio. Quello con il bambino sicuramente è un altro tipo di scambio, di rapporto, ma io mi sento più portata per quello di natura culturale, intellettuale. Questo è uno dei motivi per cui mi è sempre piaciuto insegnare al triennio: studiando la letteratura hai molti spunti per parlare con gli studenti e per spingerli a riflettere.
Nella sua carriera, ha mai pensato di aver fatto un errore con una classe, di aver agito in maniera sbagliata?
Di singoli episodi non me ne vengono in mente. Ricordo in particolare due classi con cui ho avuto rapporti non facili: in casi di questo genere ti fai delle domande e ti rendi conto che parte di questa difficoltà di rapporto è certamente anche colpa tua. Le classi sono come le persone, ogni classe è diversa dalle altre: sono un coacervo di elementi diversi che hanno in qualche modo una forte identità, ogni classe ha la sua, e questa va saputa capire e gestire. Quando non mi è riuscito bene mi sono detta che sicuramente era anche colpa mia, e questo mi è dispiaciuto molto.
Ha invece degli episodi che le hanno dato particolare soddisfazione, degni da ricordare?
Ci sono state sicuramente classi con cui si erano instaurati rapporti molto belli, di lezioni molto condivise, quando mi è capitato di leggere dei testi e sentire da parte degli studenti entusiasmo, risposte; tante volte gli studenti mi hanno fatto delle osservazioni sui testi che me ne hanno arricchito la comprensione, perché io ho imparato molto insegnando. Insegnando si impara moltissimo. E soprattutto è molto bello quando questa conoscenza ti viene da loro, perché vuol dire che hai acceso una consapevolezza, una comprensione. Classi nel momento in cui si è riso, in cui si è stati in grande armonia, sono momenti che ricordo molto bene, con grande piacere. E infatti devo dire che poi mi tornano, nel senso che alcuni studenti di quelle classi poi quando tornano sono molto affettuosi, pieni di ricordi calorosi, e queste sono cose che danno grande soddisfazione. Spesso anche quelli da cui te lo aspetteresti di meno, quelli che sono sempre stati alunni un po’ somarelli, un po’ depressi, poi vengono e ti dicono che si ricordano le tue lezioni come una delle cose più belle della loro vita. O mentono, però a quel punto non hanno più motivo di mentire [ride]; immagino che sia vero, e allora mi fa piacere.
Se non avesse fatto l’insegnante, cosa avrebbe fatto?
Che domanda complicata. Te l’ho detto, io sono sempre stata un’amante della letteratura, sono quella che si potrebbe definire – lo dico con autoironia – un’intellettuale (ride). Quindi non lo so, un lavoro da intellettuale. Forse alla fine la conclusione è che dovevo fare l’insegnante e che l’ho fatta perché la dovevo fare. Forse sì, forse la studiosa, forse l’università; però penso che alla fine ho fatto bene.
Quindi alla fine è soddisfatta?
Sì, sì, sono soddisfatta, anche se su certe cose mi sono un po’ stufata della scuola, non posso negarlo. Tanti anni a fare lo stesso lavoro, un pochino di sazietà – non vi scandalizzate – è fisiologica. Però ripeto, guardando al passato, io la scuola l’ho amata molto. E anche questa scuola ho amato molto. Sono legata al Giulio Cesare.
Una nostra curiosità: preferisce la letteratura latina o quella greca?
Io ho cominciato con la letteratura greca, l’ho studiata poi in una chiave di ricerca; nell’ambito della letteratura greca ho fatto delle traduzioni, mi sono occupata molto di tragedia; quello è infatti l’ambito che sento più vicino e che mi sembra di padroneggiare meglio. La letteratura latina invece l’ho praticata molto attraverso l’insegnamento, quindi è stato un avvicinamento più graduale, ma sono arrivata ad amarla moltissimo, alcuni autori in particolare. Le amo entrambe, ma le ho conosciute attraverso due percorsi diversi. Poi, circa dieci, forse dodici anni fa, in seguito a una riforma che cambiava la distribuzione delle ore, mi sono trovata a dover insegnare anche letteratura italiana e anche quello è stato un ulteriore arricchimento: insegnare queste tre materie insieme è diventato quasi un insegnamento di letteratura comparata, come se fosse un’unica letteratura, un’esperienza di trasversalità che trascendeva le culture e il tempo.