di Sofia Liverani e Livia D’Amico, I F

Dallo scorso numero del nostro giornale abbiamo iniziato a pubblicare una serie di interviste il cui scopo è conoscere meglio i nostri insegnanti, comprendere per quale motivo abbiano intrapreso tale carriera e il percorso che li ha portati a compiere tale scelta, cercando di scoprire chi sono davvero le persone che ci guidano nella formazione e nella crescita personale.

Incontriamo oggi la professoressa Graziana Morigine, docente di latino e greco.

Professoressa Morigine, vorremmo iniziare chiedendole da quanti anni insegna e da quanto tempo in questo liceo.

Io insegno in questo liceo dal 2013, questo è il mio undicesimo anno qui. Ho fatto il concorso per una cattedra nel 1999/2000, quando ero ancora a Lecce (città natale, ndr.) e nel frattempo ho fatto delle supplenze; insegnavo in una piccola scuola cattolica. Quando sono diventata di ruolo mi sono trasferita a Roma, nel 2005.

Aveva previsto fin da subito il trasferimento a Roma? Come l’ha vissuto?

Quando ho scelto dove fare il concorso, ho scelto di non farlo in Puglia, perché mi volevo tirare fuori da un certo ambiente nel quale non mi trovavo a mio agio. Mi sono detta che sarei uscita dalla regione e a decidere se valevo o non valevo sarebbe stata la commissione. Dovendo quindi scegliere un’altra regione dove ci fosse una grande disponibilità di posti, invece di andare al nord, dove non avrei amato, in prospettiva, trasferirmi, ho preferito Roma. Devo ammettere che anche dopo essermi trasferita non ero sicura se sarei rimasta poi per sempre: è stata una decisione presa e rinnovata via via, vedendo come la vita procedeva.

La scelta di venire a Roma è stata quindi sua.

Esatto. Pensavo che a Roma avrei vissuto volentieri ed è infatti quel che faccio, anche se periodicamente sento la fatica di stare in una città così grande e frenetica. Talvolta mi sento quasi schiacciata dall’aria che si respira qui, ma se facessi il mio lavoro da un’altra parte, non sarebbe la stessa cosa. La città mi piace e son contenta.

Come è arrivata alla decisione del voler insegnare?

Ricordo che in classe aveva raccontato che inizialmente si era iscritta a biologia – decisamente un altro ambito.Io sono andata a scuola un anno avanti, quindi ho finito il liceo a 17 anni e mezzo. Ero veramente piccola e quindi facilmente influenzabile. Quelli che avevo intorno mi dicevano che scegliendo la facoltà di lettere non sarei finita da nessuna parte, perciò dando loro retta, finii con l’iscrivermi a biologia. Fu un breve periodo, perché io non avevo mai avuto attrazione per quelle discipline – a zoologia mi facevano sezionare gli animaletti… insomma, soffrivo. All’epoca giocavo ancora a pallavolo e le mie compagne di squadra di un anno più piccole – facevano lo scientifico, perlopiù – mi portavano prima dell’allenamento le versioni e le aiutavo a tradurle. Così facendo mi resi conto che la mia strada era un’altra; allora cambiai e passai a lettere. In realtà, quando mi sono diplomata, avevo in testa l’idea di iscrivermi a lettere, ma non riuscivo ancora a capire di volerlo veramente. Sicuramente mi è sempre piaciuto scrivere e avrei voluto intraprendere un percorso nel ramo umanistico; eventualmente la carriera di giornalista, o fare a Trieste la scuola di traduzione, ma a causa dell’insegnante molto severa di greco che ho avuto al triennio la scelta non è stata per me ovvia: mi ha insegnato praticamente tutto quello che so, ma mi ha anche molto appesantito l’esperienza dei tre anni e per questo io non riuscivo a capire di voler perseguire quella strada. L’avere sbagliato in quel momento la scelta, tuttavia, mi ha fatto capire che poi volevo andare invece in quella direzione, cosa che ho poi fatto con maggiore facilità rispetto a biologia, e gioiosamente.

Per lei cosa significa essere professoressa?

Ci sarebbe molto da dire, ma devo ammettere che talvolta mi sento un po’ stretta in questa definizione di “professoressa di latino e greco”. Quando conosco nuove persone, per esempio, mi chiedono quale lavoro io faccia, alla mia risposta “Insegno latino e greco” si stupiscono e non risparmiano commenti che alla lunga risultano sempre i soliti, immaginandomi come una persona severa e critica. Da qualche anno porto questo titolo quasi con fatica, perché mi rendo conto che, a differenza di altri lavori che passano più inosservati, questo colpisce sempre: trasferisce l’idea di una persona eccessivamente rigorosa, pesante, rigida. Non nego che io stessa possa risultare tale, ma l’insegnamento descrive molto bene anche quella parte di me che si esprime quando nella scuola ci sono momenti di creatività, di iniziative; in questo modo tento di compensare il rigore che la professione inevitabilmente richiede.

Quindi per lei lo stare in classe è limitante, in qualche modo?

No, affatto! Mi dispiace che nella socialità esterna alla scuola, il fatto di fare questo lavoro significhi portare un’etichetta: tutti vedono in te i fantasmi del loro passato scolastico e vieni accostata a qualcosa a cui non necessariamente appartieni. Non mi sento mai limitata, anzi, poche volte mi sento così libera come quando chiudo la porta dell’aula e faccio lezione: stare in classe con i miei alunni significa stare nel mio mondo, che posso gestire come preferisco. Sono state poche le situazioni nella mia carriera in cui mi sono sentita limitata o costretta. Stare in classe per me è come aprire la finestra: mi sento a mio agio, libera.

Per lei che cosa significa insegnare?

Significa essenzialmente due cose, forse diverse, forse coincidenti. In primis, trasmettere le mie passioni, condividere e mettere in comune ciò che mi piace. In secondo luogo, etimologicamente parlando, educere significa “tirare fuori da”. Insegnare, secondo me, non è riempire un vaso di tante cose, come dice infatti Plutarco, compiere il processo contrario, cioè tirare fuori da ciascuno inclinazioni, gusti, piaceri, dispiaceri; in fondo è un’attività di orientamento costante e quotidiana. Io, in quanto insegnante, ti offro delle cose, come proposta educativa e culturale, perché tu possibilmente le accolga, che ti piacciano più o meno di quanto piacciono a me, affinché tu possa capire, attraverso di esse, chi sei, cosa vuoi fare e dove vuoi andare. Non bisogna dunque costringere gli alunni, ma spingerli, attraverso le materie, a tirare fuori loro stessi. Per questo certamente ci vuole una collaborazione attiva e quindi spero sempre di avere davanti dei ragazzi che veramente vogliano lavorare con me, che siano disposti a farsi coinvolgere. Purtroppo, questo non sempre si realizza con tutti i nostri studenti, ma con una parte sicuramente sì; si vede alla fine, in conclusione del ginnasio, quando riconosci la gratitudine nei ragazzi che hai avuto, che ti sono affezionati, che ti fermano nel corridoio per dirti che il triennio è molto più facile grazie allo sforzo fatto con te al biennio. Oppure più tardi, perché la terza liceo è il momento in cui tu vedi se i semi gettati hanno dato i loro frutti oppure no. L’ultimo anno, poi, i ragazzi sono fuori mentalmente, o perché stanno facendo le prove all’università, o perché si sentono già grandi, o perché mentre preparano gli esami fanno altre cose; quindi noi li vediamo lì presenti fisicamente e già diversi, più grandi, ma che non stanno più sulla scuola. È già chiara l’impressione che loro non sono più solo per te; e quindi bisogna trattenerli, conquistarli e nel frattempo lasciarli andare per dove vogliono andare.

Vede poi i risultati negli ex-alunni?

Esatto. Ciò che hai dato veramente lo capisci dopo, da quello che ti dicono tornando a scuola per venirti a trovare; riesci proprio a vederlo, anche se in pochi tornano. Io stessa non sono mai tornata nella mia scuola, un po’ per timidezza, un po’ per dolore: sentivo che mi avrebbe toccato molto intimamente. Rividi la mia professoressa di greco quando stavo studiando per l’esame per insegnare latino e greco, mi stavo preparando con suo marito, anch’egli professore di greco. Lì realizzai appieno che dietro la severità di quella donna c’era grande dedizione al suo lavoro e grande affetto per gli studenti. Quando correggeva i compiti li metteva uno accanto all’altro, era sempre equa e giusta. Ma a parte questo, io li capisco i ragazzi, perché quando escono è per molti difficile tornare. Con alcuni sono ancora in contatto, ma sono pochi fra tanti, singole persone o piccoli gruppi. Se sei riuscita a far emergere qualcosa dai loro cuori, non lo vedi immediatamente e secondo me neanche i ragazzi lo capiscono subito, solo in seguito, se quella persona ha dato loro qualcosa. Non a caso dico persona, e non professore, perché io penso e spero che di noi si veda anche come siamo fatti, che non portiamo soltanto un libro ma che portiamo in classe anche noi stessi; sarebbe bello se questo venisse compreso da tutti.

Con tutti quei ragazzi che invece la vedono soltanto come una professoressa o che non si fanno coinvolgere, come si sente di dover agire con loro? Come li vede?

Da una parte, razionalmente, mi rendo conto che non si può piacere a tutti. Credo che sia una tendenza umana comprensibile quella di voler piacer a tutti; solo da adulto capisci però che non è possibile. Tuttavia non si può applicare completamente questa teoria alla scuola, anche perché io mi preoccupo particolarmente di quelle persone che non riesco a raggiungere. Sicuramente c’è stato qualcuno che più difficilmente ha preso da me, poiché, trattandosi di uno scambio umano, ci sono delle situazioni di studenti con cui banalmente non riesci a stabilire un contatto effettivo, ma sono situazioni rarissime. Certamente è molto più facile, molto più gratificante fregiarsi degli studenti che ottengono grandi voti o che percepisci che sono in sintonia con te, ma io mi preoccupo sempre dei ragazzi a cui sono costretta a dare voti bassi. L’esercizio dell’educatore, in realtà, non è soltanto educare gli altri, bensì educarsi contemporaneamente mentre educa gli altri: bisogna sempre cercare di arrivare a tutti, fermo restando che non sempre accade e che non è neanche possibile.

Per lei che cos’è l’insegnamento?

È pur sempre un mestiere, ma io lo concepisco come un’offerta; titoli o non titoli, io mi sento un operaio della conoscenza, con il mio impegno quotidiano di umile formichina che fa delle cose per qualcuno, con abnegazione. Anche potendo fallire, ovviamente, però con l’idea di stare sempre humi, cioè sempre vicino alla terra; perché penso che così si possa dare agli studenti uno slancio verso l’alto. Altri modi non sono i miei.Quindi è un lavoro, un mestiere, non tanto una vocazione.Io non credo alle vocazioni, alle missioni, né mi sento un eroina; non ho questa visione romantica del “ho una missione da svolgere”. Ciò non significa che certe volte, quando mi incaponisco su uno studente per portarlo a migliorare, quella, in un certo senso, non possa diventare per una missione, o piuttosto un obiettivo. Per me insegnare è più un modo di esprimere e offrire una parte di me. Non penso di poter salvare nessuno, o neanche di doverlo fare; ma questo non vuol dire che io non mi dedichi con passione al mio lavoro. Chiamarla missione lo renderebbe un atteggiamento quasi eroico, con mantelli svolazzanti o premi… Io lo vivo molto nella normalità, come un compito quotidiano, come il lasciar cadere una goccia ogni giorno sperando di riuscire, alla lunga, a costruire qualcosa.

In che misura il mondo scolastico fa parte della sua vita personale?

Recentemente una mia classe è venuta a casa mia, una o due volte. Ho offerto loro dei cioccolatini e mio figlio, venendo a sapere di ciò, mi ha detto: “Tu tratti meglio i tuoi alunni di me! Tu mi trascuri per i tuoi alunni!” (ride, ndr.) Dubito che sia vero, però sicuramente i miei alunni popolano la mia casa, non solo fisicamente, ma nei miei discorsi. Fanno parte della mia quotidianità anche al di fuori dell’orario scolastico, perché mi capita di raccontare a mio figlio, alle mie amiche, alle persone che frequento, di loro.

Quindi che cosa sono per lei i ragazzi?

Mi viene in mente Pirandello: sono personaggi che abitano la mia esistenza, cioè che escono dalla classe per entrare nel mio pensiero, nel mio sentimento e nei racconti che io faccio quando parlo della scuola. Io parlo sempre di voi, tanto che mio figlio, di nome, vi conosce un po’ tutti; a volte mi chiede persino di voi.

Per quanto riguarda invece la scelta d’insegnare, c’è stato qualcuno o qualcosa in particolare che l’ha spinta verso questa decisione?

Sicuramente sapevo già che avrei voluto rimanere nell’ambito umanistico. Poi, quando mi sono laureata, ho vinto una borsa di studio del Ministero degli Esteri e sono stata in Grecia, in Tracia, a fare una ricerca di letteratura; nel frattempo collaboravo con la mia professoressa dell’Università – io mi sono laureata in grammatica greco-latina – insomma, stavo seguendo una sua ricerca. Mentre lo facevo, mentre frequentavo la biblioteca dell’Istituto di Lettere, mi sono accorta che non era per me: soffrivo di questo stare chiusa, io e le carte, io e i libri, da soli. Non che adesso non faccia più riferimento a testi o a libri, ma all’epoca capii che per realizzarmi avevo bisogno delle persone, del contatto umano, della condivisione con un gruppo. Quindi esclusi la ricerca e lasciai l’Università – nella quale peraltro ci sarebbero stati tempi lunghi e necessità di sgomitare, mentre io non sono una competitiva e amo la correttezza. Mi sono dunque avvicinata al mondo nel modo che mi è più naturale, senza consiglio di nessuno.

Una nostra curiosità: ha detto di avere un figlio più o meno della nostra età; come vive il fatto di avere dei ragazzi a cui badare a casa e al lavoro?

È un dramma (ride). Io faccio lo stesso mestiere h24, ma devo dire, essere contemporaneamente madre di un adolescente, vostro coetaneo, e insegnante, serve due volte, perché io capisco voi avendo lui dentro casa, e capisco lui avendo voi in classe. Forse mi stupisco di meno di cose che alcuni miei colleghi definirebbero deprecabili, perché le capisco, avendole anche dentro casa. Essere madre mi ha aiutato in tutti questi anni ad essere insegnante, mi ha dato una prospettiva esterna e di gruppo, non solo focalizzata su un singolo. Fare questo mestiere mi da l’opportunità di conoscere una gran varietà di ragazzi e di conoscere le fasi attraverso cui passano: nel veder mio figlio crescere ho riconosciuto tutte le tappe che io avevo già visto nei miei alunni. Grazie all’insegnamento, mi sono ritrovata un bagaglio di esperienza pedagogica conseguita direttamente sul campo che mi è servita per crescere mio figlio, nelle molteplici difficoltà che ci sono state, ci sono e che ci saranno.

Vuole aggiungere qualcosa di sua spontanea volontà?

Io non so per quanti anni ancora rimarrò a Roma, sicuramente almeno una decina, ma mi piacerebbe chiudere la mia carriera nel mio liceo, quello a Lecce in cui ho studiato. La pensione è lontana, ma idealmente vorrei tornare nel liceo che ho frequentato da ragazza, per concludere dove ho iniziato.

Di Sofia Liverani

II F, caporedattrice, prima paginista, articolista.

Un pensiero su ““Per me insegnare è come aprire una finestra”. Intervista alla professoressa Morigine.”

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