Una foto del professor Stefano Vaselli sorridente.

Thea Ceccarelli, III G

«A cosa serve la filosofia?»

«A niente.»

Così ci disse il Professore tre anni fa.

La filosofia non serve a niente, non ha un fine, poiché se lo avesse sarebbe schiava di sé.

In una società pilotata dall’utilitarismo in cui il bene si identifica col profitto e la strada da intraprendere è quella che conduce al guadagno, Vaselli ci esorta a scegliere seguendo la nostra sensibilità: «studiate ciò che vi piace, ciò che volete, al di là delle aspettative che gli altri ripongono in un futuro che è vostro». 

Il Professore ci ha mostrato la strada per pensare con le nostre menti ed emanciparci da quel senso comune che tanto disprezza perché «puzza di ignoranza»

Il suo sarcasmo raffinato e dissacrante non può offendere, non sa celare amore, un amore incondizionato per la filosofia, la storia, i suoi ideali, l’insegnamento e anche per «noi forme di vita semplici, semplici come i batteri, gli acari, l’azoto, noi gli studenti della sua II G». 

Amore che ricambiamo in una simbiotica sintonia emotiva. L’ora del Professor Vaselli l’aspettavamo con entusiasmo. Le sue digressioni continue sono un viaggio che abbraccia il presente e da vita, forma e colore alla didattica. 

Dall’alto, «con Approccio Antropologico», nell’astrazione del saggio, il Prof. convogliava i fenomeni della nostra società in riflessioni che tendevano le braccia alla filosofia, una filosofia lontana dallo storicismo di Benedetto Croce.

È vero, forse a volte ci siamo un po’ persi con il compagno di banco in quelli che Vaselli definiva «i seminari paralleli alla spiegazione».  

«Non vi distraete, vi ricordo che un quark delle tasse che pagano i vostri genitori è per questa lezione». Ristabilito il silenzio esalava un sospiro soddisfatto: «l’aspetto economico funziona sempre». 

Oggi siamo forti della consapevolezza che, averla ascoltata, è stato un privilegio. 

In classe stavamo proprio bene. Il professore è un buono, ha provato a nascondersi dietro i suoi tre dadi esagonali «ai quali affido il vostro destino», diceva. 

«Sceglie verde, nero o viola?» 

«Quello viola porta una sfiga assurda».

Minacciava di interrogaci a tappeto ma la sua presenza comunicava calda serenità in un’autorevolezza mai dispotica. 

Il suo parlare franco ha delineato i nostri limiti, individuali e generazionali. 

«L’alcol fa male, voi ragazzi dovete bere il Kefir».

«Per lei il telefono certifica la nostra permanenza sulla Terra, in caso di mancata risposta non esistono altre spiegazioni che una cessata attività vitale».

Eppure, al di la dei nostri difetti, delle «continue distorsioni», il Professore crede nell’unicità di ognuno di noi, nella diversità quale punto di forza.

Professore ogni giorno la so vicina, con il suo vestire cromaticamente verde, la scoppola, e, quando fa freddo, anche la sciarpa scozzese. Ora che sto imparando a guidare sento la sua voce graffiante che disapprova: «diamo la patente ai diciottenni per farli suicidare». La vedo sull’autobus intento a leggere, diletto in quell’Odissea metropolitana di cui ci riferiva. La immagino sorridere sincero ogni volta che pronuncio manicheo, induzione, ontologico o uno di quei termini che lei con cura sceglieva, volti a combattere la «quotidiana battaglia per l’alfabetizzazione di noi studenti». 

Una volta ci ha detto:

«Questa lezione presto si tradurrà in un raccolto? Che vuol dire?» 

«Vol di’ che ve ’nterrogo».

Professore le sue massime di vita, la brillante vivacità con la quale le ha a noi trasmesse, hanno cambiato il paradigma interpretativo con cui ci approcciamo alla realtà, il nostro modo di vedere.

E questo, parafrasando Tucidide, è, e rimarrà, un κτῆμα ἐς αἰεί, un possesso per l’eternità.

Grazie. Le vogliamo bene. 

Ci vediamo domani.

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