di Chiara Colace, II H
O musa, figlia di Zeus e Mnemosine, che muovi lente le dita, come se fossero guidate dalle stesse Parche che tessono il destino, toccandoti i palmi e guardandoti le tue mani affusolate e gentili. Con gli occhi che solo il cielo cerca di imitare, guardi me, umile mortale. Dammi l’onore una volta ancora di osservare il tuo lindo sguardo nei miei occhi che, al confronto, sono solo l’ombra dell’Helios che splende su di te, o ispirazione.
Brilla, mia musa, come Afrodite che emerge dalle onde, e incantami ancora mordendoti quelle labbra rosse, che sembrano scolpite dagli stessi artigiani che hanno forgiato la mela d’oro di Eris.
Prima di aprir bocca e proferire musica, il suono delle tue parole pare ricalcare le note della cetra di Apollo, e io voglio avere l’onere di ascoltarti. Io, che ti venero come Orfeo venerava Euridice, io che ti bramo e desidero la tua dolce voce, o bella. Guardami ancora, come fece Medusa, e incantami un’altra volta, la tua presenza è estasi divina. Non potrò mai toccar le tue mani fini, né avvicinarmi al tuo volto candido e puro come la pelle di Artemide. Non oserò mai adularti, se non per la tua voce, e ti guarderò con gli occhi dell’amore per la poesia di cui tu sei sovrana e padrona.
E ora, canta ancora e rallegra la mia scrittura su quest’angolo bucolico, come una ninfa che danza al suono della natura, come Euterpe che dona la gioia dell’arte. Tu, che sei natura e bellezza incarnata, tu che narri storie come Calliope, la musa dell’epica, tu che ammali come Circe e mi trasporti in un mondo di estasi e meraviglia.