di Luca Gentilucci, III D

Per la serie Racconti Romani 

Cromaticamente identici il cielo di quella giornata ed il fumo che usciva dalle loro labbra infreddolite.

Grigio era il cancello alle loro spalle, che dopo il suono della campanella delle 14:00 assomigliava sempre meno alle sbarre di una cella.

Grigiastra era la sua tuta, morbida, calda, resistente alle poche gocce di pioggia che battevano sul terreno di quello che di lì a poco si sarebbe trasformato in un campo da battaglia o in uno dei tribunali dell’antica Roma appena discussi in classe.

Passarono un paio di autobus, ma quel giorno la combriccola che era solita fermarsi davanti alla scuola aveva più difficoltà a staccarsi dai gradini dell’edificio.

Forse perché era l’ultimo giorno prima del week-end, quindi avevamo la mente più spoglia dalle preoccupazioni che accumulavamo nei sei giorni precedenti.

Forse perché in fondo ci piace stare lì ed anche quello che mal consideriamo, una volta diventata abitudine, tramuta in sicurezza, rifugio.

Ma in realtà il motivo per cui si erano fermati così tanto era un calcolo errato dei tempi tra le corse degli autobus e lo sfociare della loro dipendenza in movimenti ritmati bocca-mano.

Nonostante dessi le spalle alla strada, il mio udito aveva imparato a distinguere le frenate delle auto del quartiere e il verso di quel mastodontico mezzo.

Quell’attesa, apparentemente di un evento canonico, era riempita da chiacchere che nell’ascensore dell’introspezione ricoprivano i piani più alti.

Un pronostico della partita delle 18:00, una domanda sui monotoni sabati sera, insomma nulla che toccasse nessuno nella profondità.

Ci pensò l’uomo in grigio, chiamato così per il suo particolare apprezzamento del colore, che in giornate piovose come quella trovava il suo contesto migliore.

Iniziò scomodando macrotemi quali l’amore, il tradimento, la fiducia, l’amicizia, senza staccarli da quella leggerezza da osteria di Trastevere.

Lo scopo di quell’entrata a gamba tesa nelle superficiali discussioni era ben chiaro: ingigantirsi l’ego.

Ormai tutti quanti lo avevamo imparato a leggere. Non avrebbe mai citato storie così pesanti se non ne fosse stato il protagonista uscito vincitore.

Anche perché le volte che tra i sanpietrini sgorgavano dicerie sul suo conto a metterlo in cattiva luce, riusciva sempre ad omettere, smentire o aggiungere dettagli che lo facessero uscire pulito. Un grande “paravento”.

Ed anche quella volta iniziò, cercando nei nostri occhi l’effetto dello specchio delle brame.

La situazione ci incuriosì più del solito, perché a differenza degli altri suoi racconti, totalmente lontani dalla nostra realtà e di conseguenza difficilmente verificabili, questa volta gli avvenimenti erano molto più vicini di quanto pensassimo.

Esordì con accortezza, perché uno dei protagonisti era rinchiuso insieme a noi tutte le settimane in quel palazzo gigante in questo ritaglio di Roma Nord che in certi momenti non era altro che un semplicissimo sfondo.

L’oratore in tuta grigia ci trasportò al sabato precedente, in un locale al centro, più precisamente in una tavolata di giovani pischelli con atteggiamenti adulti.

Infatti ci raccontava come, nonostante fossero tutti minorenni, questa tavola era imbandita di calici di vino e boccali di birra, sigarette e pezzi di carta per il più delle volte strappati, ad indicare la mancata vincita a qualsiasi scommessa su qualsiasi tipologia di sport e non.

Nel locale i decibel erano alti, ma il buffo narratore ci teneva a sottolineare come il suo tavolo, di cui era inevitabilmente leader, era quello che comandasse anche per quanto riguardava il baccano.

Quel tocco di coattaggine me lo rendeva più simpatico perché, seppur fosse una cosa completamente opposta a quello che è il mio carattere ed a cui non avrei mai voluto partecipare, percepivo del divertimento veritiero, non il bisogno di fare cose per pura apparenza che ho sentito toccarmi in diverse occasioni in questa vita nella claustrofobica Roma bene.

Ad interrompere il suo flusso fu uno sguardo conosciuto, che entrando nel locale non perse due secondi per stuzzicare con lo sguardo l’ormai brillo combinaguai.

Nella nube confusionaria dei suoi pensieri si ricordò che quegli occhi marroni, musicali come una chitarra, li aveva già visti proprio nel luogo meno idoneo per il vestito che indossavano.

Ma a lui di questo importava poco e sussurrò all’orecchio del suo amico occhialuto che andava a rinfrescarsi un attimo le idee nella direzione in cui il destino lo avrebbe portato.

Con sguardo dominante come un leone nella savana, accompagnato da una battuta scomoda e fuori luogo per il povero barista, che tante ne aveva subite quella sera, si diresse verso i bagni.

La donzella che bramava il momento da settimane, non limitata più dai vincoli scolastici, si fiondò in quegli angoli bui, teatro di commedie e tragedie nelle serate romane.

Tornati, il locale si era quasi svuotato. Era rimasta solo la tavolata di quei farabutti, le due amiche della pischella avventuriera e i soliti quattro rumeni al bancone che con la loro sola presenza evitarono inopportune proposte alle due povere superstiti affogate nei loro drink.

La reazione dei due gruppi al ritorno della coppia fu opposta: gli amici, partendo dall’occhialuto, intonarono un coro simile al verso di un orangotango, mentre le due ragazze rivolsero a malapena parola all’amica e si alzarono in fretta e furia, quasi scocciate dalla situazione.

“Che pesantone che siete!” – disse la gioconda giovane.

Il soddisfatto e disfatto urlò al triste e stremato barista: ” Peppe, alza un altro giro! Offro io!”.

Così lo schiamazzo appena interrotto ripartì e il povero Peppe lo risentì così tante volte che divenne la colonna sonora del suo incubo di quella notte.

Risate, soprattutto per il modo in cui quella storia fu raccontata più che per la storia in sé, che per chiunque abbia un briciolo di empatia, in questo caso per l’inconsapevole fidanzata dell’uomo in tuta grigia, faceva tutt’altro che ridere.

Io, che di empatia cerco di farci i mattoni della mia essenza, non mi lasciai travolgere dall’ilarità e con gli occhi incrociai lo sguardo di un altro ragazzo che di là passava.

Con il nostro amico condivideva la completa non curanza della pioggia avanzante e come me invece non brillava di gioia nell’udire quei racconti, anzi il suo umore assumeva lo stesso colorito della felpa del grillo parlante e del cielo di quel pomeriggio.

A vedere quello sguardo che spruzzava rabbia da ogni poro, il nuovo attore di questa scena mi fece entrare in uno stato d’ansia e preoccupazione prima che il mio amico si accorgesse della sua presenza.

Una volta accortosi che quella sagoma si stava avvicinando imponente ed aveva udito le sue parole, l’ansia investì anche il giullare grigio dei gradini.

Accennando un timido saluto trasferì la sua paura a tutto il gruppo che iniziò la pratica più comune in certe circostanze: farsi gli affari propri.

Con la sua possenza avrebbe creato più ombre della scuola se ci fosse stato il sole, iniziò: “Bello de casa, i saluti se li lasciamo per le prossime”.

Sospiri.

Continuò: “Che dici di rispiegamme un po’ sta scappata che te sei fatto co l’ex innammorata mia”

Mr. Grey tentò di giustificarsi invano perché a conoscenza di un fatto rilevante che, con tanta non chalance, non citò nemmeno nel racconto che dedicò a noi.

Ovvero che la simpaticissima ragazza con cui si intrattenne il sabato scorso non era niente di meno che una vecchia fiamma di uno suo amico d’infanzia con cui andò a cena, con tanto di famiglie, il giorno dopo l’accaduto.

Irato esclamò: “Se conoscemo dall’ombelico, frate’, nun me poi fa’ n’infamata del genere, nun poi esse così Giuda da veni’ a cena il giorno dopo che hai spettinato la donna mia. Solo perché mi madre è pappa e ciccia co la tua che non so sceso co la spranga, ma potevo fallo, tienilo a mente. Guardamme nell’occhi, scusate e finisce qua”.

A quel punto, senza pluralità di opzioni, colui che aveva spinto questa altalena di emozioni si spense in delle umilissime scuse assolutamente non appartenenti alla sua personalità.

La faccenda si risolse velocemente ma con la stessa velocità si predispose per riaprirsi.

Perché Roma è la principale artefice di queste dinamiche, gabbia di magia, di passioni e oscurità.

Io tornai a testa bassa a casa, un po’ come tutti quelli che avevano subito questo schiaffo morale. 

Perché la figura da pagliaccio ce l’ha fatta uno, ma la critica alla superficialità con cui conduciamo le nostre vite nel castello dell’apparenza la accusammo tutti quanti.

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