di Veronica Angelini, II G, e Sofia Liverani, II F

Dallo ormai svariati numeri del nostro giornale, è diventata quasi consuetudine continuare a redigere e pubblicare una serie di interviste il cui scopo è conoscere meglio i nostri insegnanti, così da comprendere per quale motivo abbiano intrapreso tale carriera e il percorso che li ha portati a compiere tale scelta, cercando di scoprire chi sono davvero le persone che ci guidano nella formazione e nella crescita personale. 

Incontriamo oggi il professor Francesco Manzo, docente di matematica e fisica.

Per quale motivo ha voluto insegnare due materie che vengono spesso detestate dagli studenti?

Certo non potevo scegliere le materie (ride, ndr.), essendo sempre stato appassionato di matematica e di fisica ed essendomi quindi laureato in entrambe.

C’è da dire però che quando ho fatto il concorso per l’insegnamento, mi interessava anche insegnare alle scuole medie, che è sicuramente un’esperienza più faticosa: nella scuola italiana c’è un buco, tra le scuole elementari e le superiori, nell’insegnamento della matematica. I maestri sono molto preparati per insegnare a bambini di quella fascia d’età. Nelle scuole medie, invece, gli insegnanti sono formati su altre cose, poco su nozioni di pedagogia, e tendono a introdurre concetti troppo astratti per ragazzi di quell’età. Quindi, secondo me, se uno deve dedicarsi all’insegnamento, è giusto che lo faccia nei posti in cui la situazione è più critica come, per l’appunto, nella scuola media, dove c’è bisogno più di dedizione che di insegnamento. Anche noi, al liceo, siamo poco innovativi, ancorati a programmi nati un secolo fa, a una struttura scolastica nata un secolo fa, nata fortunatamente in maniera abbastanza felice; la scuola media, invece, ritengo sia proprio nata male.

E allora come mai si trova qui?

Alla fine ho vinto il concorso per insegnare alle superiori (ride).

Ho sempre pensato di insegnare, inizialmente, all’università, dove in effetti poi ho insegnato per 13 anni. Successivamente sono passato alla scuola perché mi affascina l’idea di diffondere concetti complessi a un pubblico che ha bisogno di accorgimenti particolari. Mi interessa molto l’insegnamento della matematica nel liceo classico, perchè si deve essere creativi, e non si può semplicemente leggere il libro, altrimenti non si raggiungono i ragazzi. Non so quando questo sia apprezzato dai miei studenti, ma concepisco l’insegnamento come un “processo creativo” per trovare stratagemmi, in modo da arrivare a loro. Capisco, però, che alcuni di loro sono più restii.

Come è nata la Sua passione per la matematica e la fisica?

Mi sono sempre piaciute; in particolar modo nel mio ultimo anno di liceo mi sono concentrato quasi soltanto su quello. Avevo anche altre idee, ma in quel periodo mi sono interessato sempre più a queste materie. Scegliere fisica all’università è stata la scelta più felice della mia vita, in quanto lì ho trovato uno spirito di gruppo, una coesione, che penso non ci sia in altre facoltà. Per me sono stati anni meravigliosi.

Finita l’università ho vinto il dottorato in matematica presso l’ateneo di Tor Vergata, e mi sono dedicato ad entrambe le materie; mi considero tuttavia un fisico, anche se ho insegnato più matematica che fisica (ride).

Ha sempre avuto il desiderio di insegnare o nel tempo ha pensato anche ad altri obiettivi?

Ciò che mi piaceva era la ricerca: di qualsiasi lavoro mi sono sempre interessati gli aspetti creativi, non mi piace il lavoro ordinario – che sono peraltro anche poco capace a fare. In ambito universitario, però, la ricerca e l’insegnamento vanno di pari passo e ho sempre posto particolare attenzione all’insegnamento.

Dopo tanti anni di insegnamento all’università, anche sotto pressione familiare, ho pensato che fosse meglio dedicarmi alla scuola superiore. La cosa che più mi mancava era il contatto con gli studenti: sono piuttosto chiuso di carattere e avere contatto con più persone sicuramente mi fa star bene. Questo è un aspetto che mi piace molto. 

All’università non si ha un vero e proprio contatto con le persone, è un ambiente mirato al doversi concentrare solo sulla materia che devi insegnare – o, per gli studenti, apprendere. Anche se io non ero titolare dei corsi, ma facevo da assistente, ho visto chiaramente come si ha molta libertà nel cambiare i programmi, una libertà di scelta molto ampia, senza dover rendere conto a nessuno. Ti devi concentrare solo su quello, ovvero la materia che insegni. Al liceo, invece, c’è il “dialogo”, che non sempre c’è all’università. C’è un rapporto più stretto con i ragazzi, cerchi di far entrare nella loro testa concetti particolari, mentre nell’università c’è il gruppo e non devi rivolgerti e concentrarti sul singolo.

L’altra differenza è che gli studenti qui, a parer mio, in quanto scuola dell’obbligo, sono meno motivati, e sta al professore trovare la maniera di agganciarli, in un modo o nell’altro.

Secondo la sua esperienza, dove è preferibile insegnare?

Sono due cose completamente diverse: sicuramente è molto più faticoso insegnare a scuola. D’altra parte, come vi dicevo, per il benessere personale, forse è stata una scelta felice quella di insegnare alle superiori. Nonostante ciò, un po’ di ricerca continuo comunque a farla.

Quindi si può dire che sia a scuola per Sé stesso ma anche per gli studenti.

Soprattutto per gli studenti, senz’altro. Io, forse anche esagerando, non mollo mai uno studente. C’è chi la soffre questa cosa (ride), ma cerco di arrivare a tutti, volenti o nolenti.

Durante il Suo percorso di insegnamento, si è mai sentito di aver fallito con uno studente?

Sì, senz’altro. D’altra parte, vedo sempre il bicchiere mezzo pieno e guardo a ciò che si è riusciti a far passare. Sono pochi gli studenti che non si sono mai tolti almeno una soddisfazione con me. Qualcuno ha sofferto per 5 anni pieni (ride) ma, in ogni caso, qualche aspetto positivo c’è sempre.

Come dovrebbe essere, secondo Lei, il rapporto tra studenti e professori?

A me piacerebbe che gli studenti percepissero i docenti non come delle persone che sono lì per giudicarli, bensì che si trovano a scuola per accompagnarli in un percorso.

Secondo me, siete una generazione “vittima” del registro elettronico, che è attaccata al voto come se fosse una sentenza di vita o di morte. Dovrebbe essere uno strumento per aiutarvi, per farvi studiare, mentre ormai l’unico vostro obiettivo è il voto. Se l’obiettivo fosse poi il 10, allora andrebbe bene, ma ormai l’obiettivo medio è sceso al 6. Il voto ha funzionato per 70 anni, ma ora, evidentemente, non funziona più; è diventato quasi una zavorra. In fin dei conti, crea più danni che benefici.

Invece dei voti cosa preferirebbe?

Se fate sport saprete bene che l’allenatore non vi dà certo un voto: trova un altro modo per motivarvi. Il voto non è l’unico modo per motivarvi a studiare e sono sicuro che si viva benissimo senza pagelle. Chiaramente, ciò richiederebbe che lo studente cambi prospettiva.

Il dato di fatto è che, in tante realtà, – liceo classico a parte –  il voto non ha senso. Non ha la minima incidenza sul fatto che uno studente studi o no. Questo massivo “bisogno” di capire chi sia meglio di chi altro non l’avverto affatto.

Vedo chiaramente che la vostra è una generazione alimentata da una particolare tensione legata ai voti. La mia generazione non l’aveva perché l’insegnante, ai nostri tempi, scriveva il voto sul registro cartaceo senza dirtelo e lo si scopriva il giorno in cui arrivava la pagella. Questo magari era meno trasparente, ma di sicuro faceva sì che vivessimo la scuola con meno tensione.

Ci sono altre cose che cambierebbe della scuola?

Sì, ci sono alcune cose. La cosa che trovo più assurda e controproducente è l’unità del gruppo classe. Essa costringe gli insegnanti, al momento dello scrutinio finale, a prendere una decisione sull’ammissione o meno dello studente alla classe successiva. Ma se lo studente ha una carenza in matematica, perché gli devo far ripetere l’anno anche in latino, in greco, in italiano, e in tutte le altre materie? È una cosa talmente insensata che poi noi evitiamo. Molto più sensato sarebbe dividersi in dei gruppi per cui l’alunno verrebbe eventualmente bocciato solo nel corso in cui ha carenze. Un’organizzazione di questo genere porterebbe lo studente a focalizzarsi sul suo percorso; nel sistema attuale, invece, sembra di portare avanti a forza un gregge. Non si riesce a stimolarvi appropriatamente e spesso si scoprono persone bravissime all’università, che al liceo risultavano pessimi studenti.