di Veronica Angelini, II G
“Il nome della rosa” è un romanzo storico di Umberto Eco, scritto nel 1980, che presenta anche elementi del romanzo giallo. Nella narrazione, vengono infatti spesso trattate questioni filosofiche, religiose e storiche, come la caccia alle streghe e l’istituzione dell’Inquisizione.
L’autore, all’inizio, ci dice di aver trovato un manoscritto di un monaco benedettino, che racconta di alcune vicende avvenute in un’abbazia, di cui non specifica il nome, ma che si trova sulle Alpi piemontesi.
La narrazione, dunque, viene raccontata dal punto di vista di Adso da Melk, un giovane frate, il quale si reca nell’abbazia insieme al suo maestro Guglielmo da Baskerville. Giungono nel monastero, in quanto è sede di un convegno tra francescani e delegati della curia papale (che si trovava, in quegli anni, ad Avignone). L’abate, inoltre, chiede a Guglielmo, un ex-inquisitore, di aiutarlo nel trovare la verità su un presunto suicidio, ovvero la morte del confratello Adelmo.
Il giorno dopo, viene trovato morto un giovane monaco, Venanzio, il quale si occupava di traduzione di testi greci, e in poco tempo si comincia a pensare che a tutte quelle strane morti sia legata la biblioteca, un posto misterioso al quale non è permesso accedere. Malachia, il bibliotecario, era peccatore di sodomia, e in cambio di favori sessuali concedeva libri proibiti.
Adso descrive con precisione la struttura della biblioteca, caratterizzata da una planimetria ottagonale simile al Castel del Monte in Puglia. Durante le indagini, trovano un pezzo di pergamena, scritto da due persone diverse, e che probabilmente si erano scambiati Adelmo e Venanzio, il quale poi venne trovato morto la notte successiva, e il cui corpo fu nascosto da Berengario. Lui stesso riesce a sottrarre un pezzo di pergamena preso da Adso e Guglielmo, e le lenti di quest’ultimo. Il mattino successivo, anche Berengario viene trovato morto e, come gli altri cadaveri, presenta segni di colore nero sulle dita e sulla lingua. Guglielmo ipotizza dunque che questo segno sia legato all’atto dello scorrere le pagine, e che quindi, i frati trovati morti, siano venuti a contatto diretto, tramite la saliva, con una sorta di veleno.
Nel corso delle indagini, appare la figura di una giovane donna, la quale, in cambio di prestazioni sessuali verso il cellario Remigio, riceve cibo. Lo stesso Adso, passa una notte con lei, e da allora comincia a provare affetto verso la ragazza, cominciando ad avere dubbi sul proprio percorso spirituale. Ma dopo essersi confessato a Guglielmo, viene in parte rassicurato dal maestro, il quale gli fa notare quanto di poco conto sia quello che lui aveva fatto rispetto a quello che stava succedendo.
L’arrivo dell’inquisitore Bernardo Gui porta a una svolta, in quanto, scoperto quello che stava succedendo, dichiara Remigio, Salvatore (un frate strambo che parla una lingua tutta sua) e la fanciulla, colpevoli dei reati.
Il giorno dopo, Malachia uccide Severino (un erborista che aveva aiutato Guglielmo con la sua conoscenza delle erbe) e lui stesso verrà trovato morto.
Guglielmo decide quindi di formulare una prima teoria: Berengario trova il libro e, preso dal veleno, lo nasconde in una stanza, dove poi lo trova Severino, il quale, intercettato, viene ucciso da Malachia.
Il libro, viene poi trovato da Bencio, che lo restituisce a Malachia in cambio di diventare il nuovo aiuto-bibliotecario, ma il bibliotecario muore leggendolo.
Guglielmo e Adso conducono un vero e proprio interrogatorio nell’abbazia e scoprono che la nomina ad abate di Abbone aveva sconvolto il monastero, e che la nomina di Malachia come bibliotecario non era piaciuta a tutti i monaci: inoltre, il fatto che lui sarebbe potuto diventare abate, poteva essere una causa dell’omicidio.
I nostri due “investigatori” cercano di avvisare l’Abate di quanto stava succedendo, ma lui nega l’evidenza.
Guglielmo riesce a trovare il luogo dove era contenuto il vecchio manoscritto, che sembrava essere il motivo di tutti quegli omicidi, ovvero la “Poetica” di Aristotele, un testo proibito in quanto suscita il “riso”. Qui trovano Jorge, un vecchio monaco a cui spesso Malachia si rivolgeva, che non era potuto diventare né bibliotecario né abate, in quanto cieco. Jorge cerca di ingannare il frate e gli offre il manoscritto: Guglielmo, però, avendo collegato i segni neri trovati sui cadaveri e il manoscritto, lo tocca con dei guanti e Jorge, accorgendosi di essere stato scoperto, scappa. Nella fuga, cade un lume, che porta a un incendio che devasta tutta la biblioteca. Dopo l’incendio dell’abbazia resta ben poco, e i nostri due protagonisti, trovata la verità, si separano, e riprendono ognuno il proprio percorso di vita individualmente.
Dall’ultima frase del romanzo, ovvero “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (“la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”) traiamo l’origine del titolo.
Si può inoltre considerare un libro aperto, ovvero un’opera letteraria la cui identità non è del tutto definita ma presenta caratteristiche che la rendono diversa.
Vi consiglio questa lettura, che oltre ad essere un capolavoro della letteratura mondiale, vi terrà col fiato sospeso fino all’ultima pagina.