di Veronica Angelini, II G
Dottor Igor Baglioni, ci racconti di come si è appassionato al genere fantasy, alla fantascienza e all’horror.
Devo ammettere di non aver mai superato la fase puerile in cui guardavo i cartoni animati e poi quella in cui leggevo i fumetti; non credo ci sia un casus belli se lo cerchi. C’è però una connessione tra il contenuto dei tipi di cartone animato che guardavo da bambino, i fumetti che leggevo da ragazzo – prevalentemente erano quelli di Van Hamme e Martin Mystère, all’epoca leggevo fumetti italiani, mentre oggi leggo prevalentemente americani – anche perché la vita è fatta di gradi: una persona ha tutto il diritto, a 16 anni, di occuparsi di tutt’altro rispetto a cosa diventerà poi da adulto. Anche se a volte, come nel mio caso, non si cambia molto. Devo dire: molte delle cose che so adesso, le ho apprese dopo aver studiato, le ho fatte mie e, viste attraverso i miei occhi nerd sono sfociate all’inizio un po’ casualmente in questo convegno del 2019, scoprendoli soltanto poi essere una ricca linea di ricerca.
Durante la conferenza ha spiegato come Il signore degli anelli sia diventato da “poema epico cristiano” a “bibbia neopagana”; come crede che sia accaduto?
Si può affermare che la generazione del ‘68 abbia insistito nel rifiutare la religione dei loro padri e nel cercare qualcosa di nuovo: hanno messo le sbarre a tutti i loro maestri, cercandone di nuovi. Alcuni ne trovano nella ricezione del tutto occidentale di religioni orientali, sulla quale poi anche gli orientali stessi insistono – si vendono molto bene all’occidente da questo punto di vista. Buona parte della risposta è proprio questa: questi uomini, cercando l’unione esistente tra il genere epico e la religione, prendono alcune ombre, tra cui il Signore degli Anelli e altre “nuove Bibbie”, e quindi nascono alcuni movimenti neopagani.
Crede che ci sia una chiara correlazione tra lo scopo didattico dei miti classici – si pensi anche solo a Platone e al mito della caverna – e delle opere del fantastico contemporaneo?
Certamente. Gli antichi avevano i miti per arrivare a diffondere quella saggezza popolare che noi troviamo magari ancora nei proverbi, noi oggi abbiamo film e fumetti. Ne ho parlato già nell’articolo che ho scritto su Matrix; in Matrix viene citato il mito della caverna, ma non solo. Quel film è un gigantesco puzzle di citazioni: alcune limpide, quella da Lewis Carroll, altre più criptiche, meno palesi. Guardando Matrix, vedi che quello del protagonista è un appartamento oscuro; è appositamente rappresentato in disordine perché anche tramite l’ambientazione si devono caratterizzare i personaggi. Il protagonista è un animo tormentato che ha bisogno di definire sé stesso, gli si legge tutto in viso.
Ritiene che sia importante la differenza tra i personaggi creati da una sola mente, quali quelli della letteratura, del cinema e dei fumetti, e quelli creati da una cultura, quale quelli dei miti? Hanno un’influenza diversasulle masse?
Sì, le differenze ci sono. Certo, così, in astratto, diventa difficile individuarle. Diciamo che si percepisce chiaramente l’aspetto dei personaggi nel momento in cui diventano parte di una mitologia. Quando Le figure della tradizione non possono essere modificate oltre determinati limiti, altrimenti il pubblico, non essendo poi tanto recettivo, può avere una reazione ostile, perché esse sono talmente impresse al sapere e all’immaginario collettivo. È come rappresentare un Odisseo stupido, è qualcosa subito balza all’occhio, che ti fa storcere il naso e non riesci a giudicare se non in maniera negativa. Ma questo succede anche in alcuni personaggi del fantastico contemporaneo. Pensiamo a George Lucas: lui ha sempre avuto un rapporto abbastanza difficile con i suoi fan, perché ha messo mano all’opera sacra che è la sua saga cambiando dettagli anche importanti durante il restauro, ma gli appassionati spesso non hanno apprezzato né accettato. Il grosso problema è nato tuttavia con l’ultima trilogia, con Kylo Ren e gli altri, con la rappresentazione di Luke Skywalker così differente dall’originale. Se ci fai caso, tra il secondo e il terzo film, c’è un abisso, un virare indietro importantissimo, perché Star Wars era ormai già entrato nella mitologia collettiva e il pubblico non poteva accettare un Luke Skywalker rappresentato in quel modo.
Quando crede che una religione rappresentata “distorta” all’interno di un pezzo di letteratura o arte possa sconfinare nella blasfemia?
Non mi sento di dire che ci sia una risposta unica, perché tra le variabili che determinano la cosa c’è innanzitutto la ricezione. I fattori in campo sono tre: il pubblico, il contesto e le intenzioni dell’autore. Quest’ultimo può anche non avere intenzioni blasfeme, ma se la tua opera si trova nel contesto sbagliato e di fronte alle persone sbagliate, può essere interpretata in modo errato. La questione non ha risposta univoca perché è difficile determinare il motivo per cui la sensibilità di ognuno di noi è diversa. Il caso di Charlie Hebdo come altri, certamente, è un caso proprio al limite, in quanto lo scandalo è già nell’intenzione dell’autore. Quella però è comunque parte della satira e quindi, come la regola di questa, può essere guidata da una regolamentazione interna più che una sensibilità personale.