di Marta Rigotti

Silenzio greve, i vicoli deserti:

nel Ghetto tutto tace,

ma è tempo di guerra, non di pace.

La sera prima una donna

agitata, fradicia di pioggia,

il suo avviso cade nel vuoto, inascoltato:

l’oro pesato è stato consegnato.

Il passo cadenzato, le urla, gli scoppi:

il cielo ancora frena l’alba, lontana.

Nell’angoscia si spera in un possibile rifugio,

non c’è tempo di piangere né luce per capire,

la scelta, tragica, è quella di obbedire.

Nel fagotto o in valigia c’è il valore delle cose,

la guerra e la follia rendono niente le persone.

Negli occhi dei padri i figli cercano risposte:

donne, uomini, vecchi e infermi

rassegnati non comprendono, con i loro occhi inermi.

Il piombo che oscurava l’aria ora sigilla i treni,

fatti per le merci, non per le persone.

Al Ghetto un tempo si vociava, tra gli affari e le preghiere,

ora il silenzio è parola, il nulla è la meta,

unica voce il lamento di un bambino,

e il ricordo del sabato, dolorosamente vicino.

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