di Daniele Giannoni, II G

Mi trovavo un giorno in montagna. Ero con mia sorella, seduto su una panchina a pochi metri da un profondo burrone. Davanti a noi si estendeva una vallata di candide distese di neve e dure vette rocciose, che l’altezza del monte su cui ci trovavamo e la limpidezza del cielo di quella mattina ci consentivano di ammirare in tutta la loro immensità. L’aria gelida e il silenzio completavano quell’atmosfera incantevole. Chiusi gli occhi per immergermi ancora di più dentro ciò che mi circondava, tenendo comunque fisso nella mente il panorama che mi si proiettava davanti. E in quel momento di massima tranquillità e beatitudine arrivò la frase che mi cambiò la vita: “Ci pensi mai al fatto che, per quanto una persona possa viaggiare, non vedrà mai nella vita tutto ciò che si trova sulla Terra: ci sarà sempre un pezzo di terra che non verrà mai calpestato dai nostri piedi, un bosco dentro cui non passeggeremo mai, una spiaggia sulla quale non ci stenderemo mai a prendere il sole, una vetta di una montagna dalla quale non ammireremo mai il panorama e che magari fornisce la più bella di tutte le viste, ma noi non lo potremo mai sapere fin quando non le avremo ammirate tutte.”

Quando mia sorella finisce di parlare, tengo ancora per un attimo gli occhi chiusi e sul momento rimango spiazzato; la testa mi frulla, poi realizzo. All’improvviso apro gli occhi e mi alzo in piedi; mia sorella si trova ancora seduta sulla panchina, anche lei, come me poco prima, con gli occhi chiusi. Ma non c’è tempo da perdere: senza badare a lei, mi dirigo verso la seggiovia che ci aveva portato lassù; giunto in paese, avrei preso il primo pullman che portava a Bolzano e poi sarei andato subito in aeroporto; “C’è un aeroporto a Bolzano?” mi domando mentre cammino.

Ma a quel punto, ancora immerso nei miei programmi, sento una mano afferrarmi il braccio: mia sorella si era accorta della mia assenza, aveva il fiatone: “Dove pensi di andare? Sei impazzito?”

“Non sono impazzito ho solo capito il senso della mia vita: vado in aeroporto; prenderò il primo aereo non importa la direzione, e poi ne prenderò un altro e poi un altro ancora: vedrò tutto il mondo, al mio ritorno non ci sarà un singolo luogo della Terra che non avrò visitato”.

“E con quali soldi pensi di fare tutto ciò? E comunque, per quanti aerei tu possa prendere, non potrai mai vedere tutto il mondo; rimarrà sempre quel pezzo di Terra che si trova tra un aeroporto e l’altro, o tra una stazione e quella dopo, che non avrai visitato”.

L’ovvietà e la verità delle parole di mia sorella mi spiazzano, il mio progetto è irrealizzabile. Mentre sono ancora assorto nei miei pensieri, mia sorella mi prende per mano e comincia a camminare velocemente: “Prendiamo la seggiovia e torniamo a casa, che se rifai una cosa del genere nostro padre mi ammazza e, prima che lo faccia, io ammazzo te”.

Arrivati nella nostra casetta di montagna, senza nemmeno salutare mio padre, mi butto subito sul letto a faccia in giù col cuscino sopra alla testa. Dalla stanza accanto sento mio papà chiedere a mia sorella cosa sia successo: “Lascia stare, è una delle sue solite idee folli, tra qualche ora si calma e torna in sé” risponde mia sorella. Ma questa volta non era una di quelle “idee folli” che durano 5 minuti e poi non ci pensò più, questa volta si trattava di un problema esistenziale che prima di quella mattina non mi era mai nemmeno passato per la testa, ma sul quale mia sorella mi aveva aperto gli occhi con quella che per lei era semplicemente una stupida frase romantica scaturita da qualche bella montagna e un po’ di neve, nient’altro. La rabbia mi cattura. Come avevo potuto essere così stupido da credere di poter realizzare un’impresa del genere; mia sorella aveva detto il vero, visitare ogni singolo luogo del mondo era impossibile, dovevo farmene una ragione. Ma come potevo semplicemente non pensare a ciò che volevo più di ogni altra cosa, il mio desiderio più profondo. L’unico modo per visitare tutto il mondo, senza tralasciare nemmeno un bosco, nemmeno una collina, nemmeno una città e addirittura il più piccolo e insignificante paesino, era farlo a piedi. Ma il tempo era mio nemico; avevo già sprecato 16 anni della mia vita a non fare niente, e, anche se fossi vissuto quanto il mio secolare bisnonno, mi sarebbero rimasti soltanto 89 anni, sicuramente non abbastanza per compiere la mia enorme impresa. Avrei voluto urlare la mia rabbia al mondo, ma sapevo che mio padre sarebbe entrato in camera a rompere le scatole. Non mi restava che pregare, chiedere a una qualche divinità superiore di fare in modo che il mio sogno si potesse realizzare, a quale costo non mi importava. Consapevole che ciò non sarebbe mai accaduto, ancora fremente di rabbia, mi addormentai.

Mi svegliai che erano circa le 4 del mattino. L’angoscia del pomeriggio precedente non si era ancora placata e gli incubi di quelle ore di sonno non avevano migliorato la situazione. Avevo bisogno di una boccata d’aria: vado in balcone e mi siedo su una vecchia panca di legno. Ripensai a quanto accaduto il giorno prima e giunsi alla conclusione che a soli 16 anni la mia vita aveva già perso di significato. Il mio più grande desiderio, celatosi per tutto quel tempo dentro alla mia testa come in un lungo letargo, era uscito fuori attraverso la frase di mia sorella, come i primi raggi di sole primaverili e il profumo dei fiori destano dal sonno gli animali nelle loro tane; ma questa sarebbe stata una primavera eterna che mi avrebbe mantenuto sveglio per tutta la vita e mi avrebbe impedito di ritornare nel mio letargo di quiete e inconsapevolezza. Conoscere ciò che volevo più di ogni altra cosa mi aveva rovinato la vita. Non mi restava che vivere il resto dei miei anni nella consapevolezza che, non potendosi realizzare il mio più grande desiderio, non sarei mai potuto essere realmente felice e non avrei mai potuto… CRAC. Collasso per terra: la panca di legno si è rotta; mi alzo e do una testata al balcone del secondo piano. Totalmente confuso, cerco il telefono per mettere la torcia e cercare di capirci qualcosa in mezzo a quel buio, ma, nel momento in cui mi sfilo il cellulare dalla tasca, mi accorgo che esso è più piccolo del mio mignolo. Rimango spiazzato per un attimo, ma poi capisco: ero diventato un gigante. Cominciai subito a pensare alle implicazioni della mia trasformazione e presto realizzai che un gigante con un solo passo copre la distanza di cinquanta passi normali, forse anche di più: visitare il mondo intero era adesso possibile, le mie preghiere avevano funzionato.

Mi misi subito in viaggio senza pensare a ciò che lasciavo dietro di me; la mia famiglia, i miei amici, la mia vita, tutto quanto perdeva di valore di fronte all’avventura che stavo per intraprendere. Nel giro di poche ore avevo valicato le Alpi, come Annibale più di 2000 anni prima, e nelle settimane successive visitai le grandi capitali europee, passando per le campagne e i tantissimi deliziosi paesini francesi con le loro maestose cattedrali gotiche; visitata anche l’Europa orientale, passeggiai attraverso le vaste foreste scandinave. Virai poi verso il continente asiatico e, superati gli Urali, percorsi la sterminata e gelida Siberia. A quel punto scesi verso la Cina, dove costeggiai la muraglia in tutta la sua lunghezza e, oltrepassate le alte vette dell’Himalaya, giunsi in India, dove conobbi condizioni di vita di povertà e degrado a me sconosciute. Visitai il sud-est asiatico per poi spostarmi a nuoto tra le migliaia di isole dell’arcipelago indonesiano. Visitato anche ogni angolo dell’Australia, risalii verso nord e, attraversando lo stretto di Bering come fecero gli antichi uomini della preistoria, arrivai in America. Superai la tundra e i fitti boschi canadesi, e giunsi ai Grandi Laghi, alle città della East Coast e poi, virando a ovest, alle sterminate praterie e ai vasti canyon americani. Discesi verso il Sud America che percorsi in lungo e in largo: dalle paradisiache spiagge dei Caraibi ai ghiacciai della Patagonia, dalle gelide vette delle Ande alla fitta e umida foresta amazzonica. Attraversai a nuoto l’oceano Atlantico per arrivare al capo di Buona Speranza da cui sarebbe partita la mia traversata dell’Africa; dopo mesi e mesi tra savane, foreste e natura rigogliosa, di fronte a me si stagliò la sterminata distesa di sabbia del Sahara e, passate le piramidi egizie, giunto nella penisola arabica, ancora deserti e deserti. Risalii infine verso il Medio Oriente e, attraverso la Turchia e i Balcani, feci finalmente ritorno in Italia.

Erano passati quindici anni dal giorno in cui mia sorella aveva pronunciato quella fatidica frase davanti a quel panorama alpino, e in quei quindici anni avevo visitato ogni singola città, ogni singola isola, tutti i deserti, le montagne, le foreste, le praterie, i fiumi, i laghi di questo mondo: avevo realizzato il mio sogno. Ma nonostante ciò non mi sentivo pienamente felice: mi mancava la mia famiglia. Dopo aver visitato il mondo intero, decisi di fare ritorno a casa; non vedevo l’ora di raccontare alla mia famiglia le avventure incredibili che avevo compiuto, i luoghi meravigliosi che avevo ammirato, le culture e gli stili di vita che avevo conosciuto. Ma non appena fui tornato ed ebbi spiegato dove ero stato per tutto quel tempo, mia madre scoppiò in lacrime per il dolore che le avevo causato a causa della mia scomparsa, mio padre mi ricoprì di insulti, mia sorella mi guardava silenziosa con uno sguardo misto di dolore e disprezzo. Ero tra lo sconvolto e l’infuriato: dopo quindici anni di assenza una vera famiglia mi avrebbe dovuto accogliere a braccia aperte, felice come non mai del mio ritorno, mentre loro mi avevano cacciato di casa: era questo ciò che mi meritavo? Sì, me lo meritavo: avevo abbandonato la mia famiglia senza un saluto, un messaggio, niente, lasciandoli nella disperazione e nella paura che mi fosse successo qualcosa di terribile; e invece quel qualcosa di terribile l’avevo fatto io a loro, partendo per inseguire un mero desiderio personale. Ero stato egoista, avevo pensato solamente a me stesso e ora ne pagavo le conseguenze. Me ne andai e ricominciai a vagabondare per il mondo, ma non più con il desiderio di conoscenza che mi spingeva un tempo, bensì con un senso di solitudine e di rimorso per ciò che avevo fatto.

Sono stato un semplice ragazzo, pieno di problemi e di desideri impossibili, ma circondato da persone che amavo e che mi amavano; adesso sono un gigante, che ha realizzato il suo sogno, è vero, ma un gigante infelice e profondamente solo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *