di Giorgia Trombetta
Caro Dioniso,
non avrei mai pensato di scriverti. A quanto ne so, sei solo un dio greco, un po’ strano e lunatico, probabilmente con dei problemi con l’alcool. Ma forse proprio per questo ho scelto di scriverti questa lettera. Sai, recentemente anche mia madre ha avuto problemi con l’alcool. Mi sono sempre chiesto perché le persone ne fossero sempre così golose, e perché lei avesse cominciato. Suppongo abbia lo stesso livello di attrazione del miele per le mosche. Prima o poi quel liquido denso, scuro, saporito e caldo ti attira a sé e sei costretto a provarlo. Eppure io so che ne resterò estremamente lontano. Tra i miei amici
averlo bevuto è segno di rispetto, di gloria, forse anche di coraggio. Tracannare un bicchiere di vino come se fosse uno shot è diventato il nuovo hobby della mia comitiva, dalla quale però mi sono allontanato, di recente, per non avere a che fare con quel liquido che mi mette sempre tanta paura, ansia, panico. Non è tanto l’alcool di per sé che mi spaventa, ma il vino. Proprio la tua prerogativa! Non pensare che ti stia scrivendo per caso, ho scelto te per un motivo, perché devo rimproverarti.
Mi fa paura il vino perché mi ricorda le cene romantiche, e le cene romantiche mi ricordano quelle di cui lei mi parlava, quelle che faceva con Gianluca quando erano solo agli inizi, prima che lui venisse a dormire da noi e prima che mi dicessero che avrei avuto una sorellina. Il vino mi ricorda le bottiglie rotte che raccoglievo la sera dopo che avevano litigato, o i cocci di quelle che calpestavo la notte, quando dovevo uscire di casa per non respirare più urla e sgridate, ma l’aria fresca e sottile di una città dormiente. Era bello passeggiare per le strade illuminate dai lampioni fiochi, prima che le loro ombre diritte si trasformassero nei miei incubi morti. Ed era bello essere illuminato dai fari accecanti delle auto solitarie, che mi facevano pensare di essere un ladro catturato dopo un crimine, circondato dalle luci bluastre delle pattuglie, come avevo visto nei film da piccolo. Forse un ladro lo ero davvero. Forse ogni volta che uscivo rubavo a mia madre la possibilità di ricevere un aiuto dal suo inutile figlio, che preferiva scappare per qualche ora e tornare quando le bottiglie di vino erano già frantumate e non restava che raccoglierle. Asciugavo per terra con un pezzo di carta igienica e quel succo inebriante e odoroso passava attraverso la carta, mi bagnava la mano e spesso si spandeva sui miei jeans.
Ma, ladro o no, tutto questo non sarebbe mai successo se tu non avessi inventato il vino. Quel liquido troppo forte per essere amato e troppo rosso per essere odiato, troppo bello e troppo disgustoso, perché lo hai inventato? A chi giova? Era davvero necessario? I tuoi cari amici greci lo amavano davvero? Chissà se uno di loro è mai morto in un incidente alle tre di notte, chissà se uno dei tuoi consumatori ha mai perso una figlia assieme alla propria vita! Te lo sei mai chiesto? Che cosa si prova? A ritrovarsi solo in una notte buia, in una città che non sembra più dormiente ma solo in quiete, in quiete prima di un attacco, una città che sembra disposta ad inglobarti da un momento all’altro nelle sue vie claustrofobiche?
Prima non era così. Prima era diverso, prima IO ero diverso. Prima ero io che mi infilavo in un supermercato e le compravo una bottiglia per celebrare una promozione al lavoro, un buon risultato delle sue ricerche, o un paio di chili persi con fatica. Prima ero io che lo facevo, mentre adesso mi costringo a comprare l’acqua in qualsiasi supermercato che non l’abbia vicino alla corsia dei liquori, perché non riesco a sopportare quei lunghi, soffocanti dieci secondi che impiego per prendere una cassa d’acqua e che mi avvicinano a quelle bottiglie nere, lucide e attraenti, e devo andare via prima di essere anche solo riuscito a pensare qualcosa di concreto. Quindi grazie davvero, caro dio greco, per aver inventato questo simpatico liquido.
A volte ho paura che tra cinque, dieci, venti, trent’anni non sarò ancora in grado di bere, toccare o solo scorgere su una tavola un bicchiere di vino. Mi chiedo se questo mi causerà più problemi di quelli che già mi ha causato; mi chiedo se una donna amerà mai un uomo che non può neanche sentire quell’odore forte e pungente da lontano. Mi chiedo anche se il problema sia io, se sono io che non comprendo qualcosa. Magari il vino è solo un modo bizzarro, divertente e affascinante di uscire dalla realtà per qualche ora, un modo per ridere, essere più aperti e generosi e non pensare troppo. Magari mia madre si sarebbe scontrata comunque contro il semaforo della via che mi costringo ad evitare ogni giorno. Mi chiedo se la sua morte – e quella della mia futura sorella – fosse stata decisa da una forza imperscrutabile, onnipotente, alta e maestosa, e il vino non c’entri assolutamente niente.
Qualsiasi cosa sia, caro Dioniso, ti prego di aiutarmi. Non so se ti piacciono ancora quei vapori odorosi che emergevano dagli animali o altri cibi che i tuoi adulatori greci abbrustolivano, ma io non ho da offrirti che questa triste lettera accompagnata dall’ultima bottiglia di vino che era rimasta nella mia impolverata credenza, che non sapevo a chi altro dare.
Alla salute,
Tuo, Vincenzo