di Benedetta D’Onofrio

Mi trovo davanti allo specchio che riflette la mia immagine: sono vestita con abiti semplici, maglione standard, né corto né lungo, e jeans a vita alta. Guardandomi con occhio oggettivo, ammetto di vedere una ragazza piacente, alta, snella, capelli lunghi curati, con lo sguardo intenso, le labbra carnose ed espressione sorridente che esprime simpatia. Ma quando mi fermo per osservarmi, quest’idea di me comincia velocemente a svanire; inizio così ad evidenziare tutti i miei difetti o particolarità che, ogni giorno, provo a nascondere, perché nessuno possa notarli. Le mie mani sono lunghe e magre, con le dita troppo affusolate che, quasi, non trattengono gli anelli; i polsi troppo delicati e fragili come il guscio di due uova. Sono consapevole che pochi noteranno la sporgenza dell’osso, accanto al mio polso, particolarmente accentuata. Il mio sguardo non si ferma, continua a cercare, a cercare “imperfezioni”, scorre fino ai fianchi ed alle gambe, che mi appaiono sproporzionati rispetto al resto del corpo. Sono attratta dallo specchio, non per ammirarmi, ovviamente, ma soltanto per scrutarmi. Mi sento come un vaso di porcellana delicato, bello, capiente, che dà l’idea di contenere qualcosa di prezioso, suscitando interesse e curiosità. La mia sensazione però, troppo spesso, è di essere vuota, priva della sostanza capace di rendere il vaso utile e soddisfacente. Vorrei non presentarmi in questo modo, sembra che mi detesti, che non mi voglia bene. Non è così. Ci sono volte in cui mi apprezzo, ma, subito sono sopraffatta dall’idea di essere inadeguata o, addirittura, sbagliata.

È ancora viva in me, la sensazione di disagio vissuta da piccola quando mi prendevano in giro perché non parlavo se non interpellata, perché preferivo la winx secchiona, piuttosto che quella bella bionda svampita o la rossa con la storia triste… Quando in un esercizio di gruppo, in gara, ero quella che faticava di più e abbassava il punteggio… Sembra che siamo gli altri a decidere ciò che sei o chi sei. E con i loro duri giudizi ti inducono a credere di essere davvero come appari ai loro occhi.

“Adesso va bene, adesso sto bene, non sono più quella bambina…” così mi ripeto con convinzione la mattina, davanti allo specchio! Poi, però, sento, ancora, tremare la terra sotto di me, allora punto con più forza i piedi sul pavimento, alzo la testa e drizzo le spalle. Inizio la mia giornata non soffermando il pensiero su di me per commiserami. Rivolgo con slancio il mio interesse alla famiglia, agli amici, ai bambini a cui dedico tanta energia come “educatrice improvvisata”. Penso a come posso farli stare bene e la loro felicità mi fa sentire meglio. Questo è un principio forse poco condiviso, ma ho sperimentato che si può raggiungere parte del benessere interiore nel dare più che nel ricevere, anche se ammetto di aver costante bisogno di essere rassicurata. Ripeto più volte, a chi è con me, la medesima affermazione, o rivolgo loro la stessa domanda, pur conoscendo già la risposta che mi verrà data. Ciò accade, purtroppo, a scuola, in famiglia, con gli amici.

Dunque tutto questo significa che non ho autostima o ne ho poca? “Ai posteri l’ardua sentenza”. Oggi non mi sento di esprimermi a riguardo. Ho imparato a convivere con tale realtà e ad accettarla, facendo leva su alcuni punti di forza, come l’aver capito chi mi sta vicino perché veramente mi vuole bene, o chi, semplicemente, mi tollera, chi è con me per circostanza o chi è felice di starmi accanto.

Riconosco di aver bisogno di guide: mio padre e mia madre sono i miei pilastri, sono coloro che mi sostengono nel credere di poter diventare quello che vorrò essere, o fare ciò che è nei miei desideri. Sono costantemente attenti a darmi modelli di vita che mi guidino alla ricerca e conoscenza del “bello”, dentro e fuori di me. Ciò cui però anelo maggiormente in questa fase della mia giovinezza è condividere le mie contraddizioni, il mio altalenare, nel pensiero e nell’umore, con chi insieme a me sta crescendo. Con gli amici più vicini ho l’opportunità di misurarmi, di incontrarmi e scontrarmi, in un esercizio quotidiano nella “palestra della vita”. Nel cadere e rialzarmi, nel perdere o vincere con l’altro cresce Benedetta! Quella Benedetta che, la mattina, davanti allo specchio, nella solitudine dei suoi pensieri, si osserva ma non sa ancora chi è. Con “l’altro” si scopre, si mette a nudo, vede le sue debolezze, prova a curare le proprie ferite; giorno dopo giorno imparerà ad amarsi, ad amare il “bello” che è dentro di sé e godere di quei benefici del tesoro nascosto, ancora non del tutto visibile né palpabile.

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