di Davide Bruno

È interessante notare come sostanzialmente tutti i commentatori antichi, nell’analizzare le varie forme di governo e di costituzione, abbiano fallito nell’individuare l’importanza del principio di rappresentanza e in generale di “limite costituzionale”, centrali nelle moderne democrazie, che vengono appunto dette “rappresentative” (si veda infatti il testo del primo articolo della Costituzione italiana: le forme e i limiti della costituzione si concretizzano nell’elettorialità delle cariche pubbliche e nella separazione dei poteri).

Concentrandosi sull’importanza della rettitudine morale dei detentori del potere, una questione che, nel concetto di “senso civico”, è perdurata fino ai giorni nostri, da Platone a Cicerone, passando per Polibio, gli intellettuali antichi interpretano più facilmente la crisi di uno stato in termini di corruzione dei costumi che non di solidità delle istituzioni.

In un certo senso, la teorizzazione della “costituzione mista” romana, che accomuna Polibio e Cicerone, fornisce un primo apprezzamento dell’importanza del principio del “checks and balances” (controllo ed equilibrio) all’interno di uno stato, ma l’interpretazione che entrambi gli scrittori ne danno travisa fortemente la questione: per loro si tratta di un equilibrio fra forme costituzionali di natura diversa e non, come è, fra poteri e istituzioni. Le diverse prerogative delle magistrature romane, d’altra parte, non ricalcano la tradizionale separazione dei poteri, teorizzata per la prima volta da Montesquieu nel ‘700; essa infatti prevede non solo una severa distinzione fra le prerogative della magistratura, dei legislatori e del governo, come stabilisce la Costituzione italiana, ma anche l’indipendenza delle tre istituzioni, che certamente non si dava nella Roma antica dove le istituzioni, rispettivamente le magistrature (consolato, censura, questura ecc.), il senato e i comizi popolari, erano strettamente dipendenti le une dalle altre e il controllo reciproco si otteneva per mezzo di un complesso sistema di prevaricazioni e veti.

Tuttavia, fra i pensatori antichi che nel corso del tempo si sono espressi in merito alla questione di quale sia la migliore forma costituzionale fra le tre tradizionali, ovvero monarchia, oligarchia e democrazia, individuate per la prima volta da Erodoto nel celebre λόγος τριπολιτικός delle Storie, ma che sicuramente erano già oggetto di un vivace dibattito nell’Atene democratica del tempo, si distingue per lucidità di analisi Aristotele. Egli, infatti, individua nella forma democratica e oligarchica due varianti della cosiddetta πολιτεία, il “regime costituzionale”, pur non rinunciando al concetto, derivato da Platone, di “degenerazione”, e dunque presentando la democrazia e l’oligarchia come forme, appunto, degenerate del regime costituzionale.

Nel dare questa definizione Aristotele, che aveva dedicato molto tempo allo studio delle costituzioni delle diverse poleis greche e alla loro evoluzione politica, tiene conto del contesto, a lui ben noto, del V e del IV secolo a.C., un contesto storico che aveva visto in quasi tutte le città greche un dibattito politico per lo più sempre riconducibile, nelle sue varie declinazioni, allo scontro fra due fazioni: quella oligarchica e quella democratica.

Aristotele è consapevole, conoscendo la storia di Atene, che aveva sperimentato nel corso dei secoli varie forme di costituzione, della labilità del confine tra democrazia e oligarchia; in più l’analisi storica tradizionale del travagliato periodo dell’ultima fase della guerra del Peloponneso fino alla restaurazione della democrazia fornivano ad Aristotele due fulgidi esempi, in senso opposto, di degenerazione della πολιτεία: il governo dei Trenta e quella sorta di anarchia che l’aveva preceduto. Data l’analisi precisa che Aristotele dà del suddetto regime costituzionale, la cui essenza viene giustamente identificata nei principi di isonomia, ovvero l’uguaglianza giuridica anche se non per forza politica, e parresia, cioè la libertà di espressione, stupisce che il filosofo, pur conoscendo bene la complessità, ad esempio, del sistema istituzionale ateniese, cada invece nell’equivoco della costituzione “mista” per commentare la costituzione spartana. Considerando, d’altronde, la particolare compresenza di monarchia ereditaria e consiglio senatorio, assieme ad una limitata partecipazione nell’amministrazione dello stato dell’assemblea dei cittadini, si può condonare il termine usato da Aristotele per Sparta.

Se anche Aristotele non riconosce l’importanza della separazione dei poteri che in buona sostanza il sistema costituzionale ateniese prevedeva, egli ebbe tuttavia il merito di individuare nel tessuto sociale ed economico il fondamento di una costituzione stabile. Infatti, considera ottimale per le poleis greche una “democrazia moderata”, basata sul democratico esercizio del potere da parte della classe media, in grado di fare da sponda sia alle tendenze aristocratiche ed oligarchiche dei cittadini di nobile orgine sia alle agitazioni popolari dei nullatenenti.

Aristotele, insomma, individua nella convergenza degli interessi economici di una classe sufficientemente ampia e con un bastevole potere economico una base salda per una costituzione stabile, anticipando in ciò i moderni studi socio-economici.

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