di Federica Gioia
Nelle nostre società, si assiste al seguente paradosso: si dispone di possibilità di accesso ai beni del tempo libero tanto maggiori quanto più si lavora. Questa società del tempo libero, così come ci è promessa, ha un prezzo talmente alto in termini di consumo di ricchezza che resta confinata alle classi medie dei paesi ricchi. Il che vieta la possibilità di realizzare il sogno del secolo dei Lumi: l’accesso di tutti gli uomini ai beni comuni.
(D. Mothé, L’utopia del tempo libero)
La mia corsa
Già a 4 anni, sin dal mio primo giorno di asilo, non ho aspettato altro che l’inizio delle elementari. Il primo giorno di elementari è passato, è stato deludente, allora mi sono proiettata completamente sul primo giorno delle medie. Inutile dire che, quando a 12 anni ho varcato la soglia della Settembrini, non visto altro che una me “pre-liceale”, invece che una semplice ed elettrizzata alunna delle medie. Al liceo, è stato ancora più facile evadere dall’attimo presente: sin dal quarto ginnasio tutti quanti hanno iniziato a parlarci di esami, maturità, la scelta dell’università, la carriera, quasi come se gli altri fossero più ansiosi di me per il mio percorso di vita. La frenesia prosegue, perchè so bene che appena entrerò all’università inizierò a pensare al dottorato, poi al lavoro, poi alla promozione, poi a quando avrò una famiglia, poi ad un nuovo lavoro, poi a quando andrò in pensione, poi alla mia morte.
La corsa di noi tutti
So che, molto probabilmente, da adulta anch’io verrò catturata da quella tremenda ansia per la realizzazione altrui e farò scolare sui posteri quest’ansia generazionale epigenetica.
Ma perchè tutta questa fretta? Perchè non ci fermiamo un attimo? Studiare per lavorare, lavorare per guadagnare, guadagnare per spendere, spendere per spendersi. Un circolo vizioso, una malattia radicata e pervicace. Mothè, in questo brano tratto da “L’utopia del tempo libero”, pone proprio questo paradosso: “si dispone di possibilità di accesso ai beni del tempo libero tanto maggiori quanto più si lavora”. Noi barattiamo come se nulla fosse il nostro tempo libero per un superfluo lusso da impiegare in un secondo e volatile tempo libero: riduciamo il tempo per noi stessi per la ricerca insaziabile dei beni di consumo. Non si tratta nemmeno di sostituire “qualità” a “quantità”, ma di ingordigia: ciò che sta succedendo, e che Mothè descrive alla perfezione, è che noi stiamo dando più valore a dei beni materiali, a dei vizi che nutrono la nostra insaziabilità, alla nostra “femmina balba”, piuttosto che alla nostra “femmina santa”. Mi spiego: non credo che il tempo di “straordinari” che impieghiamo per pagarci una bella vacanzetta a Orvieto debba essere devoluto al Signore, Dio me ne scampi, ritengo che debba essere restituito a noi stessi, alla nostra felicità più profonda, alle persone che amiamo.
Minuti e secondi
Per tutta la vita mi sono chiesta quale fosse il valore del tempo e perchè ce ne fosse concesso così poco. L’ho definito tiranno crudele, strozzino, condanna dell’uomo, fregatura della vita, bastardo, tirchio, senza cuore o antagonista dell’uomo, fino a che non ho capito che la rabbia non avrebbe avuto alcun risultato. Una mattina mi sono svegliata, rincorsa dai minuti come al solito, prigioniera delle clessidre che si svuotano lentamente, e il tempo mi è sembrato davvero troppo poco. Non solo per la mattina, ma per la mia vita intera. Ho avuto paura che non avrei mai trovato il tempo di essere, di vivere, di realizzarmi. E allora ho capito. Ho capito che non sono io, è la società: ci mette fretta, ci obbliga a correre da un capo all’altro di noi stessi in continuazione, tenendoci al guinzaglio, obbligandoci a sacrificare i nostri attimi di vita, ciò che abbiamo di più importante, in nome della mera frenesia. Abbiamo qualcosa da dimostrare? È giusto che ci annulliamo a tal punto solo per raggiungere brevi attimi di felicità? Quando saremo in punto di morte, sorrideremo guardandoci indietro?
Allora, secondo me, è tempo di essere, è tempo di slegarsi dal sentirsi in ritardo, è tempo di essere in orario con il nostro stesso percorso. Il tempo richiede tempo, la maturazione è un percorso, anche i fiori per sbocciare ci mettono qualche settimana. Eppure, non penso che un seme sia impaziente di diventare un fiore. Dovremmo sentirci più veri, più validi, durante il percorso della vita e non solo nell’effimero attimo del raggiungimento dei nostri obiettivi.
Sembra un’utopia, dal momento che è la stessa scuola o il mondo del lavoro a gettarci in questo meccanismo e a farci inseguire il “mito del tempo libero”.
Il circolo vizioso
Purtroppo, si tratta di un serpente che si morde la coda. Se tutti abbiamo una giornata della durata di 24 ore, possiamo sfruttarla in due modi: lavoro o tempo libero, che è un vero e proprio bene di consumo con un suo costo e un suo impatto sulla qualità della vita. Più si lavora, più si guadagna, ma meno sarà il tempo libero. Con più tempo libero, si lavorerebbe di meno e si guadagnerebbe, di conseguenza, un introito minore. Purtroppo, anche il tempo libero costa: dunque dobbiamo paradossalmente perdere del tempo libero per poterne ottenere altro di qualità relativamente più alta. Questo è il funzionamento del nostro sistema socioeconomico capitalista, che io trovo spersonalizzante e dannoso per le persone.
Sicuramente, un lavoro maggiore porta più produttività e più ricchezza a noi e allo stato, ma noi come ci sentiamo? Ne vale davvero la pena? Secondo me, qualcosa dovrebbe essere modificato.
Da 5 a 4
Uno dei modi per allentare la presa del tempo sulle persone, potrebbe essere ridurre la settimana lavorativa da 5 a 4 giorni: l’idea fondamentale è quella di poter ottenere in meno ore gli stessi risultati del sistema lavorativo precedente. Questa è stata una proposta recentemente avanzata negli Stati Uniti e fortemente promossa in Giappone, che secondo me potrebbe giovare alle persone in vari sensi.
Innanzitutto, è stato dimostrato che la produttività della persona decresce all’aumentare delle ore di lavoro: dunque, diminuendo le ore di lavoro si potrebbe migliorare l’operato dei lavoratori dando loro l’opportunità di dedicarsi alle loro priorità personali. Inoltre, questa proposta potrebbe fornire nuove occasioni lavorative a coloro che stanno cercando di inserirsi nel mondo del lavoro. Le compagnie potrebbero raggiungere questo obiettivo in varie maniere: minimizzando i tempi morti, misurando i risultati degli impiegati invece che il numero di ore di presenza, puntando sulla creatività, implementando il lavoro asincrono. Insomma, una sorta di “effetto pigmalione” applicato al mondo del lavoro.
Esistono punti critici di questa teoria chiaramente, dal momento che è ancora parzialmente in fase di strutturazione e ideazione, ma trovo che sarebbe un ottimo punto di partenza.
Il lavoro è sacro, è nobilitante, è vita. Per questo, non deve diventare un giogo, una tortura, un dolore. Dunque, prima di migliorare la qualità del tempo libero, dovremmo migliorare la qualità del lavoro: alla fine dei conti, siamo sempre noi a vivere entrambi i momenti e meritiamo la felicità in entrambi.