di Caterina Colella Albibo
Farmaco viene dalla parola greca φαρμακον, che significa “medicina, rimedio” ma anche “antidoto, veleno”, e le parole sono un perfetto esempio di farmaco: un uso corretto o scorretto di esse può definire non solo i nostri rapporti con le persone ma anche noi stessi e la nostra umanità.
In un tempo caratterizzato dall’infodemia (ovvero la diffusione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta anche inaccurate, che rendono difficile orientarsi su un determinato argo mento per la difficoltà di individuare fonti affidabili) e in particolar modo dall’aumento dell’analfabetismo funzionale – in età scolare e non –, il recente libro di Gianrico Carofiglio “La nuova manomissione delle parole”(Feltrinelli 2021) è un prezioso strumento per comprendere l’importanza e la vera funzione di un uso corretto del nostro linguaggio, nella nostra quotidianità.
Come sottolinea Carofiglio i ragazzi che non sanno esprimere con le parole le emozioni di tristezza, rabbia e frustrazione, rischiano di usare la violenza fisica. La mancanza di parole adeguate per descrivere la sofferenza interiore, si traduce in comportamenti violenti, poiché il singolo se non ha parole in grado di descrivere le sue emozioni e i suoi sentimenti agisce con violenza mostrando tutto il suo rancore e la sua sofferenza interiore. Si ricordino le parole di Shakespeare: “date parole al dolore: il dolore che non parla sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi“.
Il libro – che in realtà è una riedizione di un saggio scritto una decina d’anni fa – è una riflessione sul linguaggio e sul nesso fra parole, verità e democrazia. L’autore è sempre affascinato dall’«idea che le parole, cariche di significato e dunque di forza, nascondano in sé un potere diverso e superiore rispetto a quello di comunicare, trasmettere messaggi, raccontare storie. L’idea, cioè, che abbiano il potere di produrre trasformazioni, che possano essere, letteralmente, lo strumento per cambiare il mondo. Spesso, tuttavia, le nostre parole hanno perso significato perché le abbiamo consumate con usi impropri, eccessivi o inconsapevoli”
Le parole sono da sempre una cosa che tutti utilizzano, ma spesso male. Serve, dunque, un lavoro da artigiani per restituire senso, dignità e vita alle parole. È necessario – spiega Carofiglio – smontarle e controllare cosa non funziona, cosa si è rotto, cosa ha trasformato meccanismi delicati e vitali in materiali inerti. E «dopo bisogna montarle di nuovo, per ripensarle, finalmente libere dalle convenzioni verbali e dai non significati». Pertanto, la ragione di questo «consiste nell’esigenza di trovare dei modi per dare senso alle parole: e, dunque, per cercare di dare senso alle cose, ai rapporti fra le persone, alla politica intesa come categoria nobile dell’agire collettivo».
L’uso delle parole è dunque molto importante poiché un uso scorretto di esse potrebbe contribuire alla creazione di discorsi d’odio. Quando si parla di discorso d’odio si tende a pensare solamente a insulti espliciti come quelli che si incontrano tutti i giorni nelle narrazioni quotidiane frutto di relazioni, confronti e discorsi. Ma oltre alle parole esistono meccanismi ulteriori usati per comunicare e diffondere odio. Uno dei meccanismi più in uso è il tropo.
Si ha un tropo quando ad un elemento della linea sintagmatica se ne sostituisce un altro, attraverso un’opzione paradigmatica. Particolare esempio è la metafora: tipologie specifiche di metafora sono infatti quasi tutti i tropi; questi risultano quindi definiti anche come figure retoriche. Il tropo indica qualsiasi figura retorica in cui un’espressione:
- È trasferita dal significato che le si riconosce
come proprio ad un altro figurato; - È destinata a rivestire, per estensione, un
contenuto diverso da quello per cui è usato.
Nella retorica classica sono classificati come tropi anche le metafore, le metonimie, le iperboli e le fallacie, tutti tipi di figure retoriche che vengono frequentemente utilizzati all’interno dei diversi discorsi d’odio.
In particolare mi soffermerò sulle fallacie, errori nascosti nel ragionamento che comportano la violazione delle regole di un confronto argomentativo corretto.
Vi sono diversi tipi di fallacia:
- la fallacia di autorità (ad auctoritatem)– Quando si afferma che la propria tesi sia vera perché confermata da un esperto, senza fornire ulteriori argomentazioni. Nei discorsi di tutti i giorni: “Se lo dice lui/lei, che è un esperto, allora sarà vero!”
- la fallacia di aneddotica– quando si cita un aneddoto o un esempio isolato della propria esperienza personale per confutare una tesi. Nei discorsi di tutti i giorni: “La tua teoria potrebbe essere vera, ma una volta mi è capitato che/di…”
- la fallacia del “carro del vincitore”– quando si cerca di avvalorare una tesi dicendo che quest’ultima sia molto popolare. Nei discorsi di tutti i giorni: “La pensano tutti così, dunque deve necessariamente essere vero!”
- la fallacia del falso di lemma– quando si fa credere che esistano solo due alternative e si sia costretti a scegliere tra una di esse, mentre in realtà le possibilità sono più numerose. Nei discorsi di tutti i giorni: “a pranzo possiamo andare solo qui o là, dobbiamo prendere una decisione!”
- la fallacia dell’argomento fantoccio– si ha quando si presenta scorrettamente l’argomentazione dell’avversario, esagerandola o riportandola in modo caricaturale, anche mettendogli in bocca parole che non ha detto con lo scopo di confutare più facilmente la sua tesi. Nei discorsi di tutti i giorni: “non puoi essere sicuro che tutta l’acqua del mondo sia inquinata, quindi menti nel momento in cui dici che questo sia un problema”
- la fallacia dell’argomento –ad hominem– si ha quando si obiettano le argomentazioni di qualcuno senza rispondergli nel merito, ma attaccandolo personalmente, con lo scopo di indebolire la sua posizione. Nei discorsi di tutti i giorni: “stai dicendo che sia sbagliato non portare a termine un lavoro, eppure tu stesso non porti sempre a termine ciò che ti viene richiesto di fare!”
- la fallacia del terreno sdrucciolevole– si ha quando si sostiene che se avviene l’ipotesi A, allora di conseguenza accadrà anche l’ipotesi Z, quindi l’ipotesi A non deve verificarsi. Con questo meccanismo non si discute della bontà dell’ipotesi A ma si sposta l’attenzione su una ipotetica ed estrema conseguenza Z. Nei discorsi di tutti i giorni: “non possiamo aiutarla proprio ora che sono le 14 se alle 15 abbiamo quell’appuntamento, faremo tardi!”
Tutto ciò che abbiamo elencato in precedenza caratterizza l’hate speech, il cui fine ultimo non è odiare l’altro, ma rifiutarlo come interlocutore, negandone la voce, gli argomenti, l’esistenza. Forse è proprio da qui che occorrerebbe ripartire: non tanto dall’alzare il tono nel discorso agonistico (di cui l’hate speech è un ottimo esempio) quanto ristabilire un confronto cooperativo attraverso il dialogo. Un percorso lungo, accidentato e difficile. Ma forse l’unico capace di fornire – nel lungo periodo- gli antidoti al discorso, gli strumenti per la formazione di una cittadinanza inclusiva