di Laura Passalacqua

Nel 1893 Gabriele D’Annunzio, in un articolo su Zola, scriveva: “La scienza è incapace di rendere la felicità alle anime in cui ella ha distrutto l’ingenua pace. È finito il tempo del suo trionfo ingannevole. Bisogna ch’ella si faccia umile, già che non può tutto sapere, tutto guarire”.

Giovanni Pascoli, in un discorso letto a Messina nel 1898, affermava: “La scienza ha fallito!… A morte dunque la scienza!” 

Alla crisi della mentalità positivista si accompagnava, negli ultimi decenni del secolo XIX, un grave periodo di difficoltà dell’economia e della borghesia liberale. Dal 1870 in poi veniva maturando un profondo cambiamento nei rapporti sociali sotto la pressione di grandi vicende storiche. Da un lato l’ascesa del quarto stato metteva paura alla borghesia, da sempre dedita alla difesa della sua egemonia appena conquistata. Dall’altro, con l’avvento della “grande depressione”, iniziava a nascere l’imperialismo: una nuova organizzazione sociale basata sul protezionismo, ricerca di nuove aree di commercio e sullo sviluppo del settore economico-industriale.

Con questo nuovo “modello” di struttura sociale iniziava la lunga ed estenuante crisi dei “ceti medi” e la loro progressiva oppressione da parte delle grandi forze dell’alta borghesia imperialistica e del proletariato. Gli intellettuali, provenienti in genere dai ceti medi, perdevano così le loro radici sociali, prima legate alla borghesia in ascesa. Si sentivano spiazzati, sradicati, spesso incapaci di aderire o all’una o all’altra delle grandi forze antagoniste della nuova storia e la fuga dalla società diventava la soluzione di molti artisti alla loro alienazione. Era dunque nel passaggio dall’economia liberale all’economia imperialistica, con tutte le sue conseguenze, che maturava negli intellettuali il senso di una profonda crisi storica, e il Decadentismo fu la risposta di intellettuali, artisti e letterati, al tramonto della borghesia liberale.

C’era, in molti, il presentimento o la consapevolezza di vivere una crisi storica, una decadenza, una dissoluzione irreversibile: Je suis l’empire à la fin de la décadence, scriveva Verlaine nel 1883; ciò portava gli intellettuali a ripiegarsi su sé stessi, a ricercare, oltre le apparenze, una realtà più profonda: la vera essenza delle cose e della vita.

Si ebbe allora un vistoso passaggio dal terreno storico-sociale, dove operava l’intellettuale di formazione positivista-naturalista, alle inesplorate zone dell’«io». E se l’intellettuale positivista aveva creduto alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità, l’intellettuale decadente, sfiduciato e sradicato, senza più punti fermi in cui credere, all’interno di una degradazione urbana insopportabile ed emarginante, tendeva a progettare una molteplicità di miti irrazionalistici: Mistero, Bellezza, Patria, Sogno, Arte, Vita, ecc. Allo scienziato, al medico, all’ingegnere, al maestro, al capitano d’industria, esaltati dalla cultura positivista, si sostituivano l’“intellettuale bohémien”, come Baudelaire, il ribelle e il veggente, come Rimbaud, l’esteta, come Huysmans o D’Annunzio, il dandy, come Wilde, il superuomo, come D’Annunzio, il fanciullino, come Pascoli. Alla tematica popolare e sociale si sostituiva la tematica del barbarico, del primitivo, dell’esotico, del titanico, del satanico. All’arte per l’utile, l’arte per l’arte.

L’ultimo viaggio di Giovanni Pascoli

Sempre la modernità quando riflette su un cambiamento radicale di paradigma fa riferimento all’antico. Si prenda ad esempio la rilettura della figura di Ulisse effettuata da Pascoli e D’annunzio, due autori nutriti di cultura classica, ma interpreti consapevoli delle inquietudini e dei miti del proprio tempo. L’ultimo viaggio è il più ampio e significativo dei Poemi conviviali. Diviso in ventiquattro brevi canti (come l’Odissea era divisa in ventiquattro libri), descrive la delusione dell’eroe omerico nel rivisitare i luoghi delle sue avventure: ripercorre le varie tappe del suo lungo viaggio; ogni tappa e ogni incontro (come quello con Circe, il Ciclope e le Sirene) sono, in realtà, illusioni dei sensi. 

Tra le creazioni della poesia antica Ulisse è quella che ha avuto maggior fortuna nelle letterature posteriori: in quella italiana (da Dante a Foscolo, da D’Annunzio a Pascoli) Ulisse è diventato quasi uno specchio sul quale si riflette il mutare delle posizioni ideologiche e della sensibilità dei poeti e delle epoche che essi esprimono. Ulisse ha un desiderio di sapere che è ben diverso da quello dell’Ulisse omerico: l’Ulisse di Pascoli pone a se stesso e a Calipso un problema esistenziale: il senso e il fine del vivere, la risposta al “Chi sono io” (versi19-20; 26) ignoto alla raffigurazione omerica. E la risposta a queste domande è di una angoscia sconsolante.

Che in quello stesso periodo d’Annunzio facesse d’Ulisse un modello e un mito da perseguire per l’attuazione d’una dimensione super-umana del vivere (egli, infatti, compone “L’incontro con Ulisse”) non deve meravigliare: basti pensare che nell’ambito del Decadentismo la crisi delle antiche certezze, la solitudine, l’angoscia esistenziale da un lato e l’esaltazione dell’io dall’altro sono due atteggiamenti coesistenti e, quasi, complementari. 

L’ultimo viaggio

XXIII Il vero

[…]

E il vecchio vide che le due Sirene,

le ciglia alzate su le due pupille,

avanti sé miravano, nel sole

fisse, od in lui, nella sua nave nera.

E su la calma immobile del mare,

alta e sicura egli inalzò la voce.

Son io! Son io, che torno per sapere!

Ché molto io vidi, come voi vedete

me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,

mi riguardò; mi domandò: Chi sono?

E la corrente rapida e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

E il Vecchio vide un grande mucchio d’ossa

d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,

presso le due Sirene, immobilmente

stese sul lido, simili a due scogli.

Vedo. Sia pure. Questo duro ossame

cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!

Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,

prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!

E la corrente rapida e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

E s’ergean su la nave alte le fronti,

con gli occhi fissi, delle due Sirene.

Solo mi resta un attimo. Vi prego!

Ditemi almeno chi sono io! chi ero!

E tra i due scogli si spezzò la nave.

Nel penultimo canto dell’opera, al termine del viaggio, il poeta esprime il desidero di andare ad udire il canto delle Sirene. Egli le avvista, davanti a sé e, rompendo il silenzio, senza indugio, grida di esser tornato in quel luogo, perché la sua sete insaziabile di conoscenza, dopo tutto, non è mai terminata.  “Son io! Son io, che torno per sapere! Ché molto io vidi, come voi vedete me”, egli afferma. Il lungo peregrinare ha spinto l’uomo a porsi, forse, l’interrogativo più grande di tutti “mi domando: Chi sono?”. L’eroe pone la domanda alle Sirene, speranzoso in una loro risposta, ma invano attende. Nel mentre, la corrente sospinge la nave, e l’uomo osserva “un grande mucchio d’ossa” intorno alle due figuri femminili, che delineano ed evidenziano la loro essenza “demoniaca”, che non intimorisce Ulisse. Tenta, ritenta di trovare una risposta al suo interrogativo esistenziale. Tenta, ritenta di strappare qualche parola dalla bocca delle mute Sirene. Il loro silenzio è logorante. Nessuna risposta, solo l’assordante suono del cuore sofferente che si frantuma. 

L’angosciato Ulisse non saprà mai chi è stato né chi è. 

XXIV Calypso

Ed ecco usciva con la spola in mano,

d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori

sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco

capo accennava di saper quell’antro,

tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio

pendea con lunghi grappoli dell’uve.

Era Odisseo: lo riportava il mare

alla sua dea: lo riportava morto

alla Nasconditrice solitaria,

all’isola deserta che frondeggia

nell’ombelico dell’eterno mare.

Nudo tornava chi rigò di pianto

le vesti eterne che la dea gli dava;

bianco e tremante nella morte ancora,

chi l’immortale gioventù non volle.

Ed ella avvolse l’uomo nella nube

dei suoi capelli; ed ululò sul flutto

sterile, dove non l’udia nessuno:

– Non esser mai! non esser mai! più nulla,

ma meno morte, che non esser più! –

Il corpo dell’uomo, sospinto dal mare, giunge dopo nove giorni all’isola “che frondeggia nell’ombelico dell’eterno mare” di Calypso: egli non è più il giovane eroe del passato; ora è anziano (“il bianco capo”) e debole e, non appena tocca terra, decide di abbandonarsi alla morte. La ninfa avvolge il corpo dell’uomo esanime e rompe il silenzio con un grido misto a un pianto travolgente, urla, dove nessuno avrebbe potuto udirla “Non esser mai! non esser mai! più nulla, ma meno morte, che non esser più!”.

La figura di Ulisse e la metafora del suo viaggio costituiscono un evidente parallelismo con il cammino interiore dell’uomo in questo momento storico: l’uomo “moderno” sarà spaesato, privo di certezze, naufrago. L’eroe greco, sia nella “versione” pascoliana che nell’ “Ulysses” di Tennyson, si comporta esattamente come l’Ulisse dantesco: afflitto da noia, fastidio e insofferenza per la sua vita “monotona”, egli sente il desiderio di rimettere in discussione ogni sua certezza. Differentemente dalla versione del poeta inglese (a cui si ispira in maniera chiara lo stesso Pascoli, avendo anche tradotta l’opera), in cui Ulisse è un classico exemplum di eroe romantico, di “titano” che sfida il mondo ([…] “affraliti dal tempo e dal fato, ma duri sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai” afferma nell’ultimo verso l’eroe.), l’eroe pascoliano viaggia per trovare un significato per la sua vita ormai vuota. Così, Ulisse diventa simbolo delle inquietudini e delle incertezze di quel contesto storico. 

Uomini, al largo, e sedendovi in ordine, i solchi sonori 

via percotete: ho fermo nel cuore passare il tramonto 

ed il lavacro degli astri di là: fin ch’abbia la morte. 

Forse è destino che i gorghi del mare ci affondino; forse, 

nostro destino è toccar quelle isole della Fortuna,

dove vedremo l’a noi già noto, magnanimo Achille. 

Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza 

più che nei giorni lontani moveva la terra ed il cielo: 

noi, s’è quello che s’è: una tempera d’eroici cuori, 

sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri 

sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai.

Alfred Tennyson, Ulysses, trad. di Giovanni Pascoli

L’incontro con Ulisse di Gabriele D’Annunzio

Questo libro per giudizio unanime è considerato la vetta dell’opera poetica di Gabriele d’Annunzio, se pur si possa in lui nettamente separare la poesia dalla prosa, come è separato il mare dalla terra. A chi non ha ancora letto le Laudi o non le ha lette tutte, mi permetto di dare un consiglio: di non principiare dalla prima pagina e dalla Laus vitae. Per assalire un monte come questo, incoronato di stelle e di vento, ci si può incamminare aggirandolo di pendice in pendice, scoprendo la veduta del mondo grado a grado e alla fine ritrovandosi in alto lo stesso, ma con posato respiro. Tanto più utile è la tranquilla ascensione se si pensa che in questo libro D’Annunzio, senza addarsene, per l’unità e quasi immutabilità della sua natura e poi del suo genio dal Canto novo a queste Laudi, riprende modi e motivi d’ogni sua età

-Ugo Ojetti, introduzione a “Le Laudi”

Desideroso di porgersi sul suo capo quell’ “aureola” poetica caduta nel fango di cui scriveva Baudelaire quasi cinquant’anni prima e desideroso di essere il vero poeta “vate”, Gabriele D’annunzio decide di comporre cicli di opere, spesso rimasti incompiuti: è il caso delle Laudi. Nel 1903 erano terminati e pubblicati i primi tre libri: Maia, Elettra e Alcyone (che ottenne grandissimo successo, più degli altri). Il primo libro, del quale analizzerò il passo “L’incontro di Ulisse”, differentemente dalle altre raccolte di liriche, è un poema unitario di oltre ottomila versi in cui l’autore, per la prima volta, adotta il verso libero allontanandosi dalla metrica tradizionale. L’opera è una “trasfigurazione mitica” di un viaggio in Grecia compiuto realmente dall’autore nel 1895. Il poeta decide di presentare il proprio Io come eroe “ulisside”, desideroso di provare ogni singola esperienza, di andare oltre i limiti e i divieti imposti pur di soddisfare i propri desideri. Il viaggio è una vera e propria “immersione” nella Grecia mitica del mondo omerico ed ellenistico, un peregrinare alla ricerca del vero vivere, all’insegna della bellezza e della forza. Al termine del viaggio, il poeta è costretto a tornare nelle “città terribili” in quelle metropoli industriali aspramente criticate da Marx e Baudelaire. Il confronto tra passato e presente è ben chiaro nella mente del poeta. 

L’incontro di Ulisse

Incontrammo colui

 che i Latini chiamano Ulisse,

 nelle acque di Leucade, sotto

 le rogge e bianche rupi

 che incombono al gorgo vorace,

 presso l’isola macra

 come corpo di rudi

 ossa incrollabili estrutto

 e sol d’argentea cintura

 precinto. Lui vedemmo

 su la nave incavata. E reggeva

 ei nel pugno la scotta

 spiando i volubili venti,

 silenzioso; e il píleo

 tèstile dei marinai

 coprivagli il capo canuto,

 la tunica breve il ginocchio

 ferreo, la palpebra alquanto

 l’occhio aguzzo; e vigile in ogni

 muscolo era l’infaticata

 possa del magnanimo cuore.

E non i tripodi massicci,

 non i lebeti rotondi

 sotto i banchi del legno

 luceano, i bei doni

 d’Alcinoo re dei Feaci,

 né la veste né il manto

 distesi ove colcarsi

 e dormir potesse l’Eroe;

 ma solo ei tolto s’avea l’arco

 dell’allegra vendetta, l’arco

 di vaste corna e di nervo

 duro che teso stridette

 come la rondine nunzia

del dì, quando ei scelse il quadrello

 a fi eder la strozza del proco.

 Sol con quell’arco e con la nera

 sua nave, lungi dalla casa

 d’alto colmigno sonora

d’industri telai, proseguiva

 il suo necessario travaglio

 contra l’implacabile Mare.

«O Laertiade» gridammo,

e il cuor ci balzava nel petto

45 come ai Coribanti dell’Ida

per una virtù furibonda

e il fegato acerrimo ardeva

«o Re degli Uomini, eversore

di mura, piloto di tutte

50 le sirti, ove navighi? A quali

meravigliosi perigli

conduci il legno tuo nero?

Liberi uomini siamo

e come tu la tua scotta

55 noi la vita nostra nel pugno

tegnamo, pronti a lasciarla

in bando o a tenderla ancóra.

Ma, se un re volessimo avere,

te solo vorremmo

60 per re, te che sai mille vie.

Prendici nella tua nave

tuoi fedeli insino alla morte!»

Non pur degnò volgere il capo.

Come a schiamazzo di vani

fanciulli, non volse egli il capo

canuto; e l’aletta vermiglia

del píleo gli palpitava

al vento su l’arida gota

che il tempo e il dolore

solcato aveano di solchi

venerandi. «Odimi» io gridai

sul clamor dei cari compagni

«odimi, o Re di tempeste!

Tra costoro io sono il più forte.

75 Mettimi a prova. E, se tendo

l’arco tuo grande,

qual tuo pari prendimi teco.

Ma, s’io nol tendo, ignudo

tu configgimi alla tua prua».

80 Si volse egli men disdegnoso

a quel giovine orgoglio

chiarosonante nel vento;

e il fólgore degli occhi suoi

mi ferì per mezzo alla fronte.

Poi tese la scotta allo sforzo

del vento; e la vela regale

lontanar pel Ionio raggiante

guardammo in silenzio adunati.

Ma il cuor mio dai cari compagni

90 partito era per sempre;

ed eglino ergevano il capo

quasi dubitando che un giogo

fosse per scender su loro

intollerabile. E io tacqui

95 in disparte, e fui solo;

per sempre fui solo sul mare.

E in me solo credetti.

Uomo, io non credetti ad altra

virtù se non a quella

100 inesorabile d’un cuore

possente. E a me solo fedele

io fui, al mio solo disegno.

O pensieri, scintille

dell’Atto, faville del ferro

105 percosso, beltà dell’incude!

Il poeta e i suoi compagni incontrano Ulisse, ancora vigile come un tempo. Solo l’arco porta con sé (evidente è il richiamo ad uno degli episodi finali dell’Odissea quando l’eroe sfida i Feaci), unica arma contro “l’implacabile mare”. Immediatamente gli uomini lo salutano, con il cuore che batte ad un ritmo incontrollabile per l’emozione, e iniziano a porgli una serie di domande sul suo viaggio appellandolo come “Re degli Uomini”. Proprio come l’eroe, così anche il poeta e i suoi uomini tengono la propria vita “nel pugno, pronti a lasciarla in bando o a tenerla ancora”: come il super-uomo, ognuno di loro ha il pieno controllo della propria esistenza e possiede la libera facoltà di disporne a suo piacimento. Ciascuno si dichiara desideroso di imbarcarsi con lui e peregrinare insieme, “fino alla morte”. Ma Ulisse non si degna neppure di volgere il capo: le voci e le grida di quegli uomini comuni risuonano al suo orecchio come “schiamazzo di vani fanciulli”. D’improvviso, il poeta prende parola e, rivolgendosi direttamente all’eroe, afferma di essere il più forte e lo esorta a essere messo alla prova. Dal verso 75 sino alla conclusione dell’opera è evidente come D’annunzio mostri la sua volontà di potenza, il suo desiderio smanioso di azione, che si conclude in un profondo silenzio. Ulisse diventa, dunque, piena manifestazione dell’essenza superomistica vagheggiata dal poeta.

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