di Valeria Cassisa e Giulietta Ingallina, II G
“Senilità” di Italo Svevo. Un libro sopravvalutato da un pubblico legato alle tradizioni, che lo considera degno di lettura solo perché annoverato tra i classici italiani.
Numerosi sono i punti a sfavore del romanzo Senilità, scritto da Svevo sul finire dell’Ottocento: da una scrittura altisonante, a personaggi esasperanti, a una trama tediosa. La scrittura fu disapprovata dai critici di fine Ottocento per via di scorrettezze grammaticali (errori nella grafia di alcune parole o nell’accordo dei verbi), che sono tipiche dell’autore, essendo egli nato a Trieste, dove si parlava il tedesco. Pur essendo questi tratti tipici dello stile di Svevo, che spesso ricade in anacoluti, tuttavia si deve ammettere che la lettura risulta compromessa, non solo dallo stile, ma anche dai personaggi, che sono da ritenersi esasperanti. Tipica infatti in Svevo è la figura dell’inetto, un personaggio incapace di vivere al mondo, privo di iniziativa e che non possiede gli strumenti per “leggere” la realtà: ciò comporta l’agire o in momenti inopportuni o pur essendo consapevoli dell’erroneità dell’azione (lo stesso Emilio si innamora di una donna che in realtà disprezza, e ne diventerà geloso, quando dovrebbe conoscere la sua natura). Esacerbante è lo stato di senilità, in cui i due fratelli vivono, escludendosi dalla società, senza avere alcuna volontà di riscattarsi, ma vivendo l’uno in dipendenza dall’altro, in un piccolo mondo da loro creato: Amalia accudisce il fratello ed egli provvede a lei dal punto di vista economico. L’inetto di Svevo si contrappone all’eroe romantico, che cercava di opporsi alla società, ai pregiudizi; l’inetto si abbandona alla realtà: il suo comportamento è quindi passivo, non attivo, e ciò comporta una fiacchezza nella narrazione, un ritmo lento, difficile da seguire.
“Senilità”, dunque, è un romanzo senza alcun fondamento, il cui scopo non si evince, bensì è un’opera si può osar dire snervante e stucchevole.