di Thea Ceccarelli, Francesco Espero, Sofia Scalzi
Gli ignavi trovano ampio spazio nel terzo canto dell’Inferno dantesco. A parere del Sommo Poeta essi sono coloro i quali nella vita non hanno mai agito, né per il bene né per il male, non hanno condiviso le proprie idee e chissà se le hanno possedute, si sono rifugiati nell’omologazione della calca e assoggettati al volere dei potenti.
Tra gli ignavi del canto troviamo anche gli angeli i quali, quando fu tempo, non presero posizione nella battaglia tra Lucifero e Dio.
Dante Alighieri colloca gli ignavi nell’Antinferno in quanto li reputa indegni anche di una concreta pena da espiare, non meritevoli né delle gioie del Paradiso né delle pene dell’Inferno.
Essi sono condannati a vagare nudi, per non aver voluto in vita vestire un ideale, e, per non aver versato né sangue né lacrime, sono costretti a rincorrere un’insegna che si muove e ruota assai celermente su se stessa mentre vengono punti da mosconi e vespe e il loro sangue mischiato alle lacrime è succhiato via da fastidiosi vermi.
L’ignavia, lo svilente stato umano che incatena l’uomo e gli impedisce di evolversi, è stata sottolineata da Dante nel Trecento, ma da allora ai giorni nostri altri autori hanno colto tale condizione morale. L’ignavo più celebre della letteratura italiana è senza dubbio Don Abbondio il quale, nell’immaginario collettivo, rappresenta la personificazione della codardia. Così è descritto nel romanzo I Promessi Sposi: «Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti e nel cedere in quelli che non poteva scansare(…) Se si trovava assolutamente costretto a prendere parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro che egli non gli era volontariamente nemico».
Don Abbondio colpevolizza le vittime schierandosi in ogni circostanza a favore dei potenti, neanche a dirlo, in evidente discordanza con i principi cristiani.
Il nostro sacerdote, non ricco e non nobile, sapeva di trovarsi in quella società come un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva pertanto ubbidito ai parenti riguardo al proprio futuro, per paura di osare ed assumersene le responsabilità, aveva scelto di appartenere alla classe ecclesiastica, non per vocazione ovviamente, ma per le conseguenze in termini di benefici economici e sociali.
Alessandro Manzoni ha presentato tale personaggio in chiave comica, quasi a voler suscitare nell’animo di colui che legge un disprezzo bonario verso un comportamento certamente biasimevole, ma frutto della fragilità e della debolezza dell’animo umano.
Ripercorrendo le nostre conoscenze letterarie nel tentativo di scorgervi dei comportamenti inquadrabili nell’ignavia, ci è tornato alla memoria un romanzo a noi tanto caro, scritto da Luigi Garlando dal titolo Per questo mi chiamo Giovanni. Si parla di mafia e quindi si parla anche di omertà. Fingere di non vedere, non sentire e decidere di non parlare equivale a rinnegare la propria coscienza e quella collettiva. Nel romanzo un padre spiega al proprio figlio che cos’è la mafia e come la si può combattere anche nella vita di tutti i giorni.
Ad un certo punto il papà del bimbo Giovanni si abbandona ad una confessione e lo fa con un immenso turbamento interiore. Rivela che, in passato, anche lui aveva alimentato la feroce bestia che Falcone combatteva. Infatti tutti i mesi si sottometteva al gesto di pagare un tot di denaro ai mafiosi, affinché costoro non facessero del male alla sua famiglia e non recassero danni ai suoi negozi. Poi, all’improvviso, la strage di Capaci e i funerali aprono i suoi occhi. Riflette sul fine per il quale Falcone aveva lavorato, permettere ai giovani di oggi un futuro libero dalle catene della criminalità. Eppure gli esplosivi utilizzati a Capaci erano stati comprati anche con i suoi soldi e se ne vergogna. È qui che l’uomo compie la scelta più sofferta e coraggiosa della sua vita: denuncia l’estorsione alla giustizia. Tale gesto così importante per la vita della propria famiglia è in realtà talmente piccolo nei confronti delle dimensioni della mafia che non può aspirare a distruggerla. Comporterà infatti l’arresto dei criminali i quali, come rivalsa, bruceranno il suo negozio. Tuttavia sono tanti atti di coraggio come questo, messi uno affianco all’altro, che costituiscono una potente arma in grado di lottare contro il mostro.
I tempi e le epoche scorrono e con essi cambiano i contesti storici, politici e sociali, ma la matrice della condizione di viltà resta immutabile nel genere umano.
L’ignavia evidenziata da Dante, la codardia raccontata da Manzoni e l’omertà trattata da Garlando, hanno come elemento comune una sorta di superficialità dell’uomo di fronte alla scelta. Il protagonista del romanzo ambientato in Sicilia si redime e lo fa grazie alla riflessione personale, al dialogo onesto con se stesso. In assenza di tale autocritica costruttiva l’individuo si perde uniformandosi alle tendenze dominanti e rinunciando alla propria peculiarità. Scegliere implica sempre una considerevole dose di coraggio.