di Aleksandra Boni, 2 G

Nell’ultimo periodo un ingente numero di studenti e studentesse ha posto fine alla propria vita a causa del disagio psicologico procurato dal percorso d’istruzione. Riccardo Faggin, studente di infermieristica suicida il giorno prima di una laurea inesistente, è solo uno dei troppi giovani che non riescono a sopportare il peso di una carriera di studi non eccellente. L’incremento di queste morti ci invita a riflettere e a porci delle domande: “Com’è possibile che si arrivi a tanto?” “esiste davvero un mal di scuola?”. A rispondere sono generalmente i dirigenti scolastici e i docenti, rilevando che la tipica fragilità adolescenziale è diventata ancora più drammatica dopo due anni di pandemia.

Non solo la scuola, ma anche la famiglia ha difficoltà a gestire queste situazioni, poiché noi ragazzi tendiamo a chiuderci sempre di più in noi stessi. Cristina Costarelli, dirigente scolastica del liceo “Newton” di Roma, in un’intervista riportata dall’agenzia DIRE, afferma di non trovare un’immediata correlazione tra un voto negativo e il gesto estremo di uno studente, e che la questione del voto è strumentalizzata, poiché il voto è uno “strumento di educazione” e “non è dal voto che si crea competizione”, poiché esso è accompagnato generalmente da una spiegazione legata al percorso dello studente. La dirigente dichiara ciò nonostante statistiche schiaccianti e paurose: il 56% degli studenti italiani dichiara di diventare nervoso davanti a un test, rispetto alla media del 37% europea, il 70% dice di provare molta preoccupazione e di conseguenza solo il 26% delle ragazze e il 17% dei ragazzi si definisce contento di andare a scuola, una percentuale bassissima. Ad alzare ulteriormente i livelli di stress e pressione cui sono sottoposti gli studenti interviene inoltre la “precocizzazione” dei test di ingresso all’università: molti di questi, tra cui da quest’anno anche quello di Medicina, si possono affrontare già dal quarto anno delle superiori. Vietato perdere tempo!

Se la preside Costarelli afferma che colpevolizzare la scuola o le università sia troppo “facile” e che la scuola cerca di fare tutto il possibile per i suoi studenti, diversa è la posizione della professoressa di Psicologia dello sviluppo Daniela Lucangeli: “Colpa e paura sono le emozioni alla base del nostro sistema educativo” esordisce. Invita gli insegnanti a concentrarsi di più sugli stati d’animo degli studenti mentre apprendono, poiché se un bambino impara con gioia, nella sua memoria resterà traccia dell’emozione positiva che gli dirà di continuare a “cercare” e scoprire nuovi argomenti. Ai ragazzi viene chiesto di imparare troppo, in poco tempo, senza passione, con l’ansia di doverne rendere conto, la frustrazione di non riuscire e la costante sensazione di perdere tempo per cose più utili e piacevoli. Il problema, perciò, è di duplice natura: il carico cognitivo è inadeguato per quantità e per qualità. Il problema della scuola italiana non è la valutazione in sé, ma il suo approccio. I professori tendono principalmente a mettere voti perché si è obbligati dal sistema, e non perché siano propensi a decifrare lo stato delle conoscenze dello studente. Grazie a un nuovo filone di ricerca scientifica, warm cognition, cioè cognizione calda, è diventato chiaro ciò che già gli antichi pedagoghi illuminati avevano capito, e cioè che le nozioni si fissano nel cervello insieme alle emozioni e quest’ultime, a loro volta, influiscono concretamente sui processi cognitivi, come attenzione, memoria e comprensione.

L’introduzione di uno psicologo scolastico, che dalla fine dell’emergenza sanitaria non viene più finanziato dal Ministero dell’Istruzione, aiuterebbe in parte gli studenti a superare ansie e paure, ma per eliminare totalmente questi problemi lo psicologo non è sufficiente: il sistema scolastico dovrebbe prima di tutto concentrarsi sullo stato emotivo dei ragazzi e successivamente sul loro rendimento scolastico.

È importante accompagnare con una motivazione positiva l’impegno che viene richiesto a scuola e negli ambienti extrascolastici: è necessario studiare, imparare, impegnarsi in ogni attività che si compie, ma non per diventare i primi, bensì per apprendere cose che non si conoscono o non si sanno fare, divenire più competenti, effettuare un bel percorso di crescita personale. Anche per i ragazzi è utile l’uso del rinforzo positivo alle loro ‘fatiche’.

Bisogna anche far capire che non si può essere bravissimi in tutto ciò che si fa: c’è chi è più portato per lo studio, chi per lo sport, chi per una certa materia scolastica, chi per un’altra. È necessario cercare di capire realisticamente dove il ragazzo riesce meglio da solo e dove invece ha bisogno di un po’ di supporto, spronandolo a migliorarsi senza però pretendere più di quel che oggettivamente può dare. Si dovrebbe parlare con lui delle sue effettive doti e ‘delimitare’ le sue difficoltà, per consentirgli di sviluppare un’adeguata autostima, necessaria per affrontare le tappe di acquisizione degli apprendimenti e delle abilità. Noi ragazzi “viviamo di corsa” senza pause e riflessioni, occorre perciò organizzare anche spazi liberi, di relax, di momenti trascorsi a casa.

Inoltre queste fonti di stress continuo portano a veri e propri attacchi di panico e di ansia: solo un ragazzo su tre afferma che i propri docenti si preoccupano del suo benessere psicologico e che lo mettono a proprio agio; allarmanti i dati di una statistica che sostiene che nove ragazzi  su dieci ne soffrano abitualmente. Gaetano Cotena, psicoterapeuta, professore a contratto di Psicologia Clinica e Abilità relazionali presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di Brescia, afferma che le cause degli attacchi di panico a scuola, non sono soltanto attribuibili alla fragilità degli studenti, come spesso si sottolinea. È necessaria una formazione su questi aspetti per tutto il personale docente, perché gli attacchi di panico possono manifestarsi a seguito della svalutazione da parte di un adulto significativo, che a volte è il docente, e dal sovraccarico di richieste, a fronte della percezione interna di non riuscire a soddisfarle. Riuscire a nominare la propria emotività, la propria ansia, le proprie fatiche, i propri timori, anche rispetto alla richiesta sempre più pressante di performance, è necessario per favorire il benessere emotivo a scuola. Ma questo è possibile solo in un clima di classe accogliente, rispettoso e non giudicante.

Personalmente vedo questo tipo di comportamenti quasi ogni giorno: in quattro anni di liceo mi ritrovo spesso, anche troppo, a dover consolare ragazze chiuse nel bagno a piangere senza riuscire a smettere. Purtroppo, confrontandomi anche con altre persone, questi comportamenti sono troppo normalizzati nell’ambito scolastico e molto spesso non vengono presi in considerazione.

Il liceo Morgagni, a Monteverde, a pochi passi dal Tevere, da ormai sette anni porta avanti la sua sperimentazione innovativa: interrogazioni senza voti, pochi compiti a casa, tanto lavoro di gruppo e autovalutazione. Sofia Schiavone, 20 anni, ex studentessa del liceo Morgagni, sostiene che questo metodo, per i suoi studi universitari, sia stato molto efficace, soprattutto per i lavori di gruppo e per superare stress e ansia. Conferma la validità del metodo e sostiene che non si debba studiare per il voto, bensì per una scelta di responsabilità personale, affinché ci si costruisca un futuro.

Potrebbe essere una alternativa?

È ora di cercare insieme delle strategie per combattere e vincere il mal di scuola.

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