di Alessandro Brando, II G
In questo scritto analizzerò il capitolo XXVI del Principe di Niccolò Machiavelli, offrendo anche una possibile attualizzazione del suo contenuto. Il Principe è un trattato composto da Machiavelli nel 1513 in una prima stesura non sottoposta ad un labor limae da parte dell’autore. Una stesura più elaborata uscì nel 1515-16, dedicata a Lorenzo de Medici per riacquisire l’appoggio della ricca e potente famiglia. Inizialmente non fu mandato in stampa e circolò solo in ristretti ambienti e sotto forma di manoscritto. Solo nel 1532 fu pubblicato a Firenze, suscitando sin dall’inizio prima l’attenzione e in seguito lo scalpore del pubblico. L’opera può essere considerata all’interno del panorama letterario come un trattato politico, profondamente innovativo nella sua struttura non tanto per il tema trattato, quanto per il modo molto moderno con il quale Machiavelli affronta l’argomento. Erano stati scritti in epoche precedenti diversi trattati, chiamati “specula principis” che tracciavano e indicavano le virtù morali che un principe avrebbe dovuto avere, costruiti seguendo le diadi bene e male, positivo e negativo. Questo giudizio morale Machiavelli lo ignora andando oltre il semplice giudizio positivo o negativo. Egli si prefigge di parlare non dell’immaginazione, ma della realtà effettiva delle cose. Proprio questa ricerca della verità oggettiva, disgiunta da ogni tipo di morale esistente all’epoca in Europa, fa nascere pressanti critiche e grande scalpore.
Machiavelli ci propone una visione completamente rivoluzionaria della politica e di quello che un principe doveva fare per acquistare e mantenere grandi principati, esponendo una realtà sottoposta alla sua attenta analisi e alla sua vasta esperienza. La realtà effettiva, coniugata allo studio costante dei classici e della storia, consente a Machiavelli di fornire vere e proprie direttive per i principi. L’autore spiega attraverso esempi tratti dalla storia presente e passata come un principe debba essere sia “buono” che, a volte, “cattivo” (uomo e animale, volpe e leone), e come atteggiamenti, da lui stesso considerati ingiusti e spietati, debbano essere utilizzati se utili al bene dello stato. Attenzione perché Machiavelli parla di bene dello stato e non di accrescimento di un potere personale tirannico: la tirannide viene considerata una degenerazione del principato e non è da perseguire, anzi da evitare in ogni modo. La morale non è funzionale al mantenimento di uno stato, poiché i cittadini sono persone inaffidabili e corruttibili. Proprio questa convinzione pessimistica in relazione alla natura umana, destinata a desideri egoistici e scellerati, influenza lo scritto di Machiavelli. Poiché in un mondo utopistico, governato da una morale assoluta che coinvolga tutte le persone, l’opuscolo di Machiavelli diverrebbe inutile, ma purtroppo il mondo reale è ben diverso. Si può parlare di una vera e propria scienza teorizzata dall’Autore, che con un atteggiamento empirico affronta la politica del suo tempo; è per questo aspetto collegabile ad una tendenza da parte degli scienziati a scrutare la realtà basandosi su conoscenze apprese tramite l’esperienza, che infine porterà alla rivoluzione scientifica con figure come Keplero e Galileo Galilei, veri artefici ed inventori del metodo del cimento.
Il capitolo XXVI, l’ultimo del Principe, si distacca e differenzia dagli altri, per una dialettica che all’inizio sembra contraddire quanto detto sopra. Si intitola ‹‹Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam›› che tradotto significherebbe, “Esortazione a pigliare l’Italia e a liberarla dalle mani dei barbari”. Dal titolo già si intuisce il cambio di tono dell’autore, che non parla più di come mantenere un principato e della realtà effettiva, ma che invece espone un suo desiderio, che può anche essere definito “utopia”. In questa esortazione il linguaggio diviene quasi profetico, con varie citazioni ai testi sacri e ci si concentra sulla personificazione dell’Italia, che viene descritta come ferita e debole più che mai. Il passo è ricco non solo di immaginazione, ma di incredibile emotività: «più stiava che gli Ebrei, più serva ch’e Persi, più dispersa che gli Ateniesi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa», questa immagine è straziante, ma ci fa comprendere come l’Italia fosse vista da un uomo politico come Machiavelli, di cui è riconosciuto lo sprezzante odio verso i principi ignavi che non si opponevano e non facevano nulla dinanzi alle forze straniere. Questi principi non valgono nulla per l’autore, che invece nell’ultimo capitolo evidenzia la necessità dell’Italia di trovare un nuovo principe, guida e salvezza del popolo. Questo nuovo principato infatti, secondo Machiavelli, deve avere la propria base nel popolo, cioè deve essere sostenuto dal volere del popolo italiano, in ideale connessione con l’antica Roma repubblicana. Potrebbe sembrare contraddittorio quest’ultimo punto con tutto l’opuscolo incentrato sul principato e i principi, ma in realtà non lo è. L’autore, infatti, considera il principato come primo passo verso un’organizzazione più stabile e duratura, che è la repubblica modellata su quella romana.
Oggi l’esortazione di Machiavelli non sarebbe rivolta al popolo italiano per unificarsi sotto un unico principato, ma a tutti i cittadini Europei per continuare la realizzazione del sogno che ci accomuna. Oggi non si può parlare solo dell’Italia e del popolo italiano, poiché ormai tutto il mondo partecipa ed è protagonista di quello che succede. Si può affermare che il mondo non è più Eurocentrico, come lo era all’inizio del XVI secolo, e ciò cambia i destinatari del messaggio di Machiavelli. Da un lato l’Italia disunita e lacera che si deve opporre al dominio dei barbari, dall’altro l’Europa debole e in difficoltà che si deve opporre al dominio delle potenze mondiali. Come si può notare lo scenario è drasticamente cambiato, divenuto mondiale. Per questo a mio avviso l’ultimo capitolo è di facile attualizzazione: anche se i protagonisti sono cambiati, la storia e le dinamiche politiche non lo sono di certo, come ci insegna Machiavelli. Quest’ultimo, come già Polibio, attribuisce alla storia una natura ciclica; i comportamenti dell’uomo, così come la sua natura, rimangono immutati nel corso del tempo, perciò proprio dagli antichi l’uomo può imparare a migliorare. Per Machiavelli l’archetipo è l’età Repubblicana romana, che oggi risulta assai lontana, in un mondo completamente globalizzato dove l’unità civile repubblicana cede il passo al profitto del singolo e alla conseguente disgregazione di una società più equa e giusta; in uno scenario politico pietoso, fautore di eclatanti scandali di corruzione e scelte alquanto discutibili. Tutto ciò ha portato scontento nei cittadini europei e si percepisce un crollo della fiducia nell’Europa a causa della inadeguata classe politica.
Lo slancio eroico di Machiavelli nell’ultimo capitolo è da ammirare, contro il clima fatalista e pessimista che oggi invade l’animo di innumerevoli persone. L’autore in quest’ultimo capitolo denuncia la necessità di arruolare milizie cittadine, poiché esse, legate saldamente alla patria, avrebbero combattuto per quest’ultima fino alla morte. Oggi queste “milizie” siamo noi giovani che continuamente, sotto forma di proteste, corsi e attività formative autogestite, manifestiamo il nostro pensiero e le nostre idee per il futuro. Purtroppo però anche tra noi giovani esiste un clima fatalista e pessimista, o possiamo anche chiamarlo un clima di ignavia. I valori che parte della mia generazione tenta a tutti i costi di salvare, urlando ad alta voce, sono seriamente minacciati dalla tendenza del mondo occidentale di rendere tutto consumo, tutti consumatori. Proprio come propone Machiavelli, l’Europa, per potersi chiamare tale, ha il dovere di risollevarsi e levare “le mani dei barbari” dalla nostra terra, cultura e tradizioni. Prima ho accennato alla natura utopistica dell’esortazione dell’autore, poiché in quel secolo di fatto lo era; l’unica differenza che si “deve” assolutamente fare è che l’esortazione attualizzata non ha una natura utopica, sebbene per alcuni possa sembrare il contrario. Proprio per questo secondo me l’attualizzazione di questo capitolo è necessaria, in quanto è ricco di entusiasmo e emotività, contiene speranza e passione per la politica. Tutto questo mi ha personalmente molto colpito: dopo una schiacciante e crudele realpolitik, Machiavelli ci presenta il suo sogno, che non è altro che il frutto di tutti i rami che ha intrecciato nei capitoli precedenti.
Ho utilizzato la parola realpolitik e il lettore merita una spiegazione della mia audace affermazione. Si può parlare di realpolitik nel testo di Machiavelli? A mio parere è più che lecito, e anche di facile intuizione. La realpolitik sopravvive nei nostri sistemi politici e possiamo affermare che Machiavelli ne sia un precursore, osando possiamo affermare che ne sia inventore, ovviamente non chiamandola con il suo appellativo attuale. Benché il termine nasca solo nella metà del XIX, grazie a uno scrittore tedesco, Ludwig Von Rochau, che si ispirava alle politiche di Otto Von Bismarck, Machiavelli nel suo trattato politico lo aveva già elaborato. La ricerca del potere e il successivo mantenimento di esso senza alcuno scrupolo, il forsennato realismo in politica; tutti questi sono principi della realpolitik.
Infine trovo l’ultimo capitolo del Principe un vero e proprio capolavoro per la sua espressività ed emotività immortali, dato che ancora oggi lo si può leggere in chiave moderna. È possibile imparare dall’esperienza dell’autore che all’inizio illustra la realtà effettiva delle cose, ma che poi alla fine si lascia trasportare dal magnifico fascino dell’utopia, classico di un sognatore. Come me.