di Marika Ruffini, II D

«Scuola» è il posto dove gli adolescenti abitano quotidianamente, crescendovi all’interno e grazie alla quale costruiscono le loro vite. Molto spesso, tuttavia, non ci rendiamo conto di quanto essa possa cambiare, e radicalmente, in base a dove uno si trova a nascere e a vivere. Chi scrive ha avuto la fortuna e la possibilità di passare un semestre nella Repubblica di Irlanda ed in questo articolo analizzerò proprio l’aspetto scolastico del paese, ma non in termini di sistema – di certo molto differente – bensì sotto un altro punto di vista: la laicità. Sì, perché nonostante la Repubblica d’Irlanda sia formalmente laica, il background storico, estremamente cattolico, del paese mette in dubbio la veridicità di questo aggettivo. Senza ombra di dubbio la situazione varia da scuola a scuola, ma quella in cui io sono stata assegnata mostra in pieno come spesso l’imparzialità religiosa venga ancora meno in Irlanda. Preghiere all’inizio di ogni lezione, periodiche messe, l’insegnamento della religione cattolica obbligatorio, raduni volti alla benedizione degli alunni, “settimane della cristianità” e così via. A noi sembrerebbe quasi di sentir parlare di quelle che in Italia sono le cosiddette “scuole delle suore” eppure no, si tratta di una scuola pubblica, e così come nel mio istituto tutto ciò succedeva come anche in altri, ancor oggi è possibile infatti stimare che 9 scuole irlandesi su 10 siano gestite dalla Chiesa. Allora mi son chiesta: come è possibile che questo ancora accada nel 2023?

Il tutto cominciò nel 1831 quando Lord Stanley, Pari di Gran Bretagna ma Segretario-Capo d’Irlanda, istituì un sistema scolastico nazionale che prevedeva la costruzione di scuole rigorosamente a-confessionali, il che nel contesto dell’Irlanda del XIX secolo significava garantire parità di accesso a cattolici, protestanti (per lo più anglicani della “Church of Ireland”) e dissidenti (presbiteriani, metodisti, o non appartenenti a nessuna Chiesa). I cattolici, in generale, sembravano contenti di questo sistema ma, mentre l’idea di una gestione congiunta protestante-cattolica non decollò mai di fatto, ci fu un ragionevole livello di successo nello stabilire un sistema pubblico di istruzione che trascendeva le divisioni settarie. Alla vigilia della Grande Carestia (1846), infatti, l’Irlanda aveva livelli di alfabetizzazione relativamente alti e i fondi destinati alle scuole lo erano altrettanto. Dopo la carestia però, la Chiesa Cattolica iniziò a ricrearsi come struttura istituzionale con un vasto potere sulla vita civile e intima della maggioranza della popolazione. Come parte di questo processo, distrusse perciò le scuole nazionali e le sostituì con un sistema specificamente cattolico. La realtà è quindi che l’Irlanda si è semplicemente ritrovata con un anomalo sistema di controllo ecclesiastico sull’istruzione che, un po’ forse anche per abitudine, è rimasto poi per sempre e continua ancora oggi (motivo per il quale anche in tutte le scuole è necessario indossare l’uniforme, e gli edifici scolastici sono per la maggioranza divisi tra edifici maschili e femminili). E alla Chiesa questo controllo sull’educazione pare far molto comodo, motivo per il quale si è diffuso nel tempo il falso mito che essa si prenda cura dell’istruzione meglio di quanto lo Stato farebbe da solo – utilizzando una discutibile interpretazione del nostro “principio di sussidiarietà”. Ma il pesante controllo della Chiesa sul sistema scolastico non deve essere in realtà visto come un atto di beneficienza, bensì come una sorta di esercizio di potere che dura da decenni.

Come è facile immaginare però, più passa il tempo e più aumenta il dissenso da parte di studenti e famiglie irlandesi verso questo tipo di sistema scolastico oramai secolare. I dibattiti sono infiammati da chi chiede un ambiente scolastico più aperto, inclusivo e meno “indottrinato”. Anche perché bisogna ben tenere a mente che la maggior parte della popolazione di questo paese abita in piccoli centri dove la scelta delle scuole non è ampia, trovandosi perciò costretti a mandare i propri figli in scuole di cui non condividono l’ethos.

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