di Maria Stella Domenicucci, II B
Nell’aprile 2018, Madeline Miller pubblica Circe, molto più di un romanzo.
Parla della figlia di Elios, maga di Eea, molto più che un’ammaliatrice.
Tante donne, nella cultura arcaica, hanno vissuto ai margini della gloria, deuteragoniste all’ombra di eroi sfrontati ed invalicabili. Allo stesso modo tante ninfe, sovrastate dall’ego degli dèi, hanno condannato sé stesse a un’eternità di sudditanza.
Circe nasce ninfa, ma è prima di ogni cosa donna. Per centinaia di anni vive la sua immortalità in modo vano, da atopos (fuori luogo). Ora è troppo sensibile, ora troppo ingenua, ora troppo riflessiva, ora troppo rispettosa. Cerca il suo scopo in un ambiente arido, opportunista e crudele come solo il mondo degli dèi sa essere. Spesso, per confortarsi, si ricorda di non appartenere a quelle acque, ma di «essere solo una delle creature che le abitano».
Pochi, infatti, sono i poteri divini che le vengono garantiti alla nascita. Sono tanti, invece, i tratti che la accomunano agli esseri viventi, tra cui la voce, così simile a quella degli umani, e la sua curiosità verso chi è terreno e destinato alla morte.
Ad aprirle gli occhi è il breve incontro con Prometeo, simbolo di ribellione e di sfida alle autorità, alle imposizioni. Per amore degli uomini, egli è disposto a barattare la sua monotona vita eterna con l’agonia. E lo fa consapevolmente, perché ha trovato «qualcosa per cui valga la pena sanguinare». Questa è l’indagine che Circe porta avanti per tutto il corso della sua storia: la ricerca di qualcosa per cui essere vulnerabili.
Entra così in contatto con il mondo terrestre. Gli uomini, mortali e insignificanti, sembrano esserle devoti come mai nessuno lo è stato. Sperimenta la brama di potere degli dèi, ma presto realizza che questa non le appartiene e che non potrà mai farla sentire completa. Cerca l’amore, apprendendo che la fiducia, nelle mani sbagliate, è un’arma letale. Scopre di essere una maga ma, dando sfogo alla sua natura, conduce sé stessa all’esilio dal mondo ultraterreno, presso la nota isola di Eea.
Qui cerca il proprio senso negli altri, insoddisfatta e sconfitta dalla loro precarietà mortale. «In un’esistenza solitaria – riflette – sono rari i momenti in cui un’altra anima si fonde con la tua, così come le stelle sfiorano la terra una volta l’anno».
Troppo umana per essere dea, troppo dea per essere umana. Questa è la sua condanna, finché Odisseo, re di Itaca, in viaggio da anni dopo la caduta di Troia, non giunge per caso sull’isola. Egli è astuto, dalle mille risorse e dai mille volti. È un eroe, anch’egli offuscato da quella superficiale gloria, tanto agognata da tutti i mortali per sentirsi degni della società. Eppure tratta Circe in modo nuovo, facendola sentire intera: dea e donna allo stesso tempo e nella stessa misura. In lui questa trova un amico, un consigliere, un confidente e un amante. Trascorrono stagioni insieme, vivendo di racconti e pace finché, succubi del fato, devono separarsi per permettere a Odisseo di riprendere il viaggio.
Inconsapevolmente, l’eroe lascia a Circe un figlio, Telegono. Egli non è un ragazzo facile, soprattutto agli inizi, ma ha il merito di aver condotto la madre a un sentimento d’amore puro e genuino, per cui è disposta ad annientarsi, a lottare, a sfidare gli stessi dèi, che prima temeva, a “sanguinare”.
Dopo varie vicende, è il finale a lasciare più spazio alla riflessione. Circe coglie dei fiori nati dal sangue di Crono e, mangiandoli, diventa interamente mortale. Con un semplice gesto, la donna riesce a sconvolgere secoli di valori e aspettative. Nella Grecia arcaica, l’unico obiettivo umano è il conseguimento dell’eternità, tramite il ricordo delle gesta e la propria stirpe. Circe, nata con questo dono, sceglie di morire. Rifiuta, così come lo stesso Prometeo aveva fatto secoli prima, di trascorrere il tempo in eterno, senza mai vivere davvero. Così conclude le sue pagine di avventure: «Lassù le costellazioni ruotano e tramontano. La mia natura divina sfolgora in me come gli ultimi raggi di sole prima di tuffarsi in mare. Un tempo pensavo che gli dèi fossero opposti alla morte, ma adesso vedo che sono più morti che altro, poiché sono immutabili, e non possono trattenere nulla nelle mani».