Racconto ispirato alla poesia di Montale: La casa dei doganieri

di Marco Occhiuto, I C

È la casa dei doganieri, quella che s’erge in cima alla scogliera, che sembra, come una vedetta, guardare il mare, e chi vi si tuffa, e chi vi si bagna … e le navi, che lontano, dove il sole scivola, si spostano come il vento le chiama, e vuole.

Vede le onde che si rifrangono sui massi e si frantumano in mille schizzi d’acqua pura e salmastra, come faville scoppiettanti d’una scintilla di festa.

Una brezza odorosa le giunge fin dal mare – è servita, adagio, dai venti che incespicano, soffiando, tra le pareti del rialzo sassoso –; e la melodia degli uccelli che s’adagiano sui rami, fiaccati dal calore, commista alle urla dei bambini sulla riva, le arriva anch’essa dai venti e pare adombrarsi sul suo muro scalcinato e rotto. Sta lì impassibile forse da cent’anni, come la volle chi la costruì; sta ferma e salda come una regina, come una torre antica e maestosa; sta lì a guardia di quello che si vede.

Nei giorni di festa – il che vuol dire, tutti – tre, quattro o cinque anziani, contenti e riuniti, sostano sul suo limitare, intenti a non inoltrarvisi. Stanno lì, seduti, arrangiata una sistemazione, raccolte due sedie e preso un tavolino: si scambiano le carte, le mischiano con cura, e si giocano i denari, i pochi che hanno. Bestemmiano, ingiuriano, cantano le grazie delle donne che, per il sentiero attiguo, passano. Di ognuna commentano i bei tratti, i doni di una giovinezza che ancor sorride, di un rigoglio che brilla e rampolla ancora. Presto si stancano di giocare a carte, del sette bello che non è spuntato, del tre di denari che non s’è mostrato, sicché uno, recuperato dalla tasca un bel dado d’un candore pallido, lo posa malizioso sul tavolino incarbonito e impregnato di mille odori, di fumi stanchi di sigarette, e di sigari.

Ma il calcolo dei dadi, anch’esso, tedia, e le luminose venature del cielo sembrano incupirsi all’orizzonte, mentre il sole si mostra a tratti, tra le nuvole fatte più dense. L’astro sembra divagare tra le trame degli arbusti, tra i rami dei pruni, tra le frasche indorate del tramonto. Sui massi s’ode infrangersi il mare turbolento e un odore di sale, raccolto dalle gocce sollevate, raggiunge le narici bianche e consumate, e si fa strada tra i sentieri del fumo e del vino piacevolmente annusato.

Stanchi anche di dadi, non rimane che, per l’appunto, il vino. Chi se ne serve con quantità, per gloriarsi delle proprie capacità; chi già lo alza per brindare; chi cerca, annaspando, di ricordare quel famoso detto, in latino, che si dice al posto di ‘salute’. C’è di tutto attorno a quel tavolino, sotto la casa dei doganieri. Il mondo tutto pare rivelarsi, senza più segreti, senza più veli, nel suo candido nitore, nella sua intricata semplicità: è, essa, racchiusa solennemente negli accenti di parole, che trasudano ignoranza, nei commenti modesti sulla vita, pregni – chissà come – d’una saggezza che non s’apprende sui libri.

Nel vino annegano i dolori della vita, i dispiaceri che hanno incontrato, chi più chi meno, sul sentiero che là, alla fine, li ha portati.

Tra auguri di salute si salutano. Ma no, che molti già sono ubriachi, di follia.

Ubriachi dalla vita, gli uni agli altri s’appoggiano pesanti, cacciando dalle bocche logore d’acidità, grondanti di vino, urla di strappata serenità. Bevono, per dimenticare. Si accasciano sulle sedie senza schienale, mentre alcuni, più svegli, cadono di petto sul tavolo, con la testa ammortita e fattasi pesante, con gli occhi che si chiudono per forza, e il sorriso che si spiega nelle lacrime.

Voci acute, uscite stridule e frivole, d’ubriachezza. Il dolce profumo del vino, svaporato e dispersosi nell’aria dai tappi di sughero, dalle bottiglie lasciate aperte, giunge alle loro case, non tanto distanti, e le mogli sanno dell’ebbrezza che ha colto i mariti.

C’è, nel loro annebbiamento, un desiderio occultato di ritornar fanciulli, giovani, belli, sereni; di spostare, Dio sa come, il sole che là, sulla distesa, si curva, dall’altra parte, brillante sui monti trapunti di luci, d’azzurro.

Il sole, il bel luminoso sole, tanto pieno di vita, sarebbe, l’indomani, rispuntato tiepido e riposato sopra i monti, di nuova luce avrebbe indorato i pendii, le valli, le pianure aride, scandite da covoni, i recinti, le greggi, le distese infinite del mare. La loro vita no. Avviata alla sua inesorabile sera, sarebbe scivolata, d’un tratto, in una buia quiete cieca di albe e di tramonti, ignara d’aurore.

La vita, pure così dolente e penosa, appariva, in quell’ultimo gradino, in quell’ultimo frangente, un privilegio.

E c’è, nel loro annebbiamento,  la brama di rivivere l’amore, di innamorarsi ancora una volta della fanciulla che esce, con il suo stuolo d’amiche attorno, dalla scuola di danza o dal parchetto, e con la mano destra, vanitosa, si aggiusta, delicata, i capelli d’oro attorno all’orecchio, e accenna un sorriso di grazia, e di maliziosa complicità,  che si rarefà nell’aria tremolante. Il brivido della vita che li sta, a grado a grado, abbandonando, lo rivogliono. E il desiderio si fa più acceso dove più è spenta la luce.

Davanti a loro, così ridotti, passa ora uno sciame di ragazzi, ignari, ingrati. Non sanno quale fiore li vela, quale fortuna arride loro, non sanno.

Credono di vivere per sempre, credono di rimanere così per l’eternità.

Loro, invece, sanno, certo, quale morte li attende al terminare della via: sentono il marchio del tempo scolpirsi sui volti e sulle braccia cascanti, inoltrarsi l’ombra sulle loro pupille; e si sentono, tremendamente si sentono, fiori pendenti al terreno, languidi, più secchi, pronti a staccarsi dallo stelo, al passare dell’aratro indifferente.

Guarda! Il sole s’è spento e le ultime luci s’aggrappano alla balza, ora alla casa.

Una lontana canoa, come un puntino bianco, svanisce sulla linea del mare, dove il sole più languisce. Dalla parte opposta del cielo, si cala un’ombra serale, man mano, più scura.

La banderuola è impazzita, per i venti, e le canne son mosse qua e là, e stormiscono gli alberi. Sugli scogli un mare color vino si infrange, come s’infrange il ricordo di una vita, cui si è morbosamente aggrappati, come la luce al mondo, come l’acqua alla sua distesa.

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