di Sofia Liverani, V F
Stolta fui a credere che potessi cambiare, anche solo d’un cenno. Mai mi amasti veramente, mai prendesti un impegno, e io, accecata, ci cascai.
Pagai da sola il conto dell’accaduto, oltre che di quella cena.
Ci incontrammo per la prima volta quando eravamo adolescenti, ricordi? All’epoca la mia innocenza infantile quasi mi fece innamorare di te. Il tuo caschetto perfetto, i tuoi occhi grigio luna; la tua divisa sempre d’un bianco candido e la mia sempre macchiata di pennarelli o tempere colorate. Già allora i nostri amici scherzavano dicendoci che eravamo fatte per stare insieme.
Oh, Franziska, come mi mancasti tutti quegli anni. Solo l’ultimo pentamestre del college ci riunimmo; mi condannai per tutto il tempo che avevamo perso nel momento stesso in cui ti rividi. Tutti i pettegolezzi su di te non mi importavano, eri mia e mia sola, non avrei lasciato che altri si potessero mettere tra noi.
La nostra passione bruciò impaziente e fin troppo a lungo, passammo ogni minuto insieme ad amarci, non ci risparmiammo neanche un momento, nemmeno un attimo di respiro. Forse però, fu proprio questo che ci rovinò.
Lo realizzo solo ora: fu esattamente quando accettai quel lavoro che iniziò la fine.
Quelle dicerie, quelle accuse su di te, non badavo a loro, ma erano vere. Come ho potuto farmi ingannare da una come te per tutto questo tempo, come? Quel tuo dannato caschetto, quei tuoi meravigliosi occhi grigi cenere. Quello sguardo di ghiaccio, non si scioglieva solo con me, vero? Oh no, no. Non mi rispondere, non voglio saperlo. Non mi importano più tutte le coltellate che mi lanciasti ogni volta che ero di spalle, ormai non ha più senso contarle.
Franziska, Franziska mia. Io avevo pronto l’anello, sai?
Ero tornata apposta in anticipo, quella volta, per farti una dolce sorpresa. Lo tenevo stretto in tasca, fremevo, quella sera in cui tornai da Parigi ero sicura che avresti detto di sì. Non avevo dubbi, te lo posso giurare.
Ma entrando in casa ti vidi con quella. Quel tuo sguardo freddo come l’inverno pareva un sole di giugno, quei capelli solitamente perfetti, profumati di un sentore di tundra erano ora scompigliati da una sua mano. E quel vestito…
Ricordi come corsi via senza proferire parola, mentre tu gridavi rincorrendomi?
Stolta, stolta fui.
Quante altre volte ciò era accaduto senza che io lo venissi a sapere? Quante?
Dovevo aspettarmelo.
Tre anni e più passarono quando ricevetti una tua lettera. Tu, sgualdrina da quattro soldi, osavi scrivermi? Dopo tutto ciò che mi avevi fatto? Non poteva finire bene.
Ad annusare la carta, sentivo lo stesso sentore di tundra che sempre avevano le lettere che mi inviavi quando ero via. Mi riportò indietro di anni, ai migliori della mia vita.
Che cosa sto dicendo? Tu, donna bisbetica e frivola, l’amore della mia vita? Assolutamente no.
Respirai, pensai, mi preparai una tazza di tè.
No, dovevo resistere. Non ti avevo perdonata affatto, non potevo permettermi di cadere nuovamente tra le tue grinfie.
Lessi le tue parole, non una che non fosse d’adulazione, ne ero consapevole, ma mi sciolsi quando mi resi conto di starle leggendo a mente con la tua voce, col tuo accento del nord Europa.
La lettera parlava di una cena nel nostro ristorante preferito, nel quartiere vicino al college. Già tutto prenotato, a carico tuo, dicevi.
Era un prendere o lasciare: se avessi declinato l’invito, nulla sarebbe cambiato; ma se l’avessi accettato… poteva essere la svolta o uno dei più gravi errori nella mia vita.
Ingenuamente iniziai a ponderare seriamente sulla questione.
“Forse se accetto vedrò il cambiamento in lei, una vecchia scintilla rinnovarsi, un nuovo inizio per lasciarci alle spalle il passato. Forse sono stata troppo dura, forse merita un’altra possibilità, forse…”
Troppi forse.
Mi convinsi tuttavia.
Presi la giacca e mi incamminai.
Mentre andavo, riaffioravano ricordi che pensavo sepolti per sempre nel retro della mia memoria. Continuavo a domandarmi: sono vestita in maniera adatta? cosa avresti invece indossato tu? ti sei forse lasciata crescere i capelli o hai mantenuto il solito taglio? il tuo sguardo, i tuoi occhi, mi avrebbero colpito ancora alla stessa maniera di una volta?
E pensavo a cosa avrei detto, o a cosa avrei dovuto dire, almeno.
Inizialmente la cena non partì col piede sbagliato, come invece temevo.
Tuttavia a un certo punto della serata, tu mi chiedesti “dei finanziamenti per un tuo progetto”. Se il progetto era incastrarmi e vivere per sempre a carico mio, beh, te lo potevi scordare. In tutto quel tempo eri riuscita a sopravvivere sulle spalle degli altri, incredibile davvero. Mai un lavoro serio, mai un impegno, sempre dove il vento ti portava. Sei riuscita persino a farmi pagare quella cena, mi complimento!
Franziska, questa mia lettera è una lettera d’addio.
È vero, forse rimpiangerò di avertela inviata, forse mi condannerò in eterno e sarai il mio ultimo pensiero prima di lasciare questa terra.
Forse sono ancora innamorata di te.
Ma ciò non cambia il tuo modo di essere perfettamente falsa e di vivere nella menzogna.
È inutile provare e riprovare. Sono stanca di rincorrerti e di essere rincorsa.
Quell’anello l’ho conservato, ma lo riceverà qualcuno di degno, qualcuno che amerò fino in fondo e fino alla fine, qualcuno di cui mi possa fidare sempre.
Mi dispiace. Davvero.
Avevo altro in mente per noi.
Per l’ultima volta,
Franziska,
addio.