di Marco Mascioli, III F
Lo storico Federico Chabod sostiene che l’attività storiografica, prima di approdare alla fase di ricerca prettamente scientifico-oggettiva, nasca da uno stimolo soggettivo, la cui genesi è da indagare nel radicamento politico dell’autore nella sua contemporaneità. In parole povere, lo storico si interessa, in base al suo background, solo di determinati aspetti di un evento: si può studiare la Rivoluzione Francese come emblema della democrazia illuministica o come causa prima della Restaurazione di stampo conservatore. Ebbene, un discorso simile riguarda l’arte: un oggetto, un autore o uno stile sarà giudicato morale o immorale a seconda del contesto storico-culturale dell’interprete. Se un’opera, una volta prodotta, rimane tale, il pensiero è in rapida e costante evoluzione. Questo è il motivo per cui ogni categorizzazione della moralità dell’arte risulta pericolosamente azzardata e potenzialmente dannosa.
Con un simile discorso, non intendo certo liberare l’arte da ogni pretesa morale. Pareyson afferma correttamente la banalità della convinzione di una “necessaria autonomia” dell’arte, spesso sbrigativamente etichettata come “né morale né immorale”. L’arte, semmai, è entrambe le cose; impossibile è però dare un’etichetta definitiva. È esistita, certo, un’arte d’intenzione morale: si pensi alla polis ateniese di quinto secolo a.C., dove le rappresentazioni drammatiche erano manifestazione terrena di una coscienza etica collettiva. Il drastico cambiamento nel modo stesso di pensare l’arte si è avuto con la caduta della polis e l’inizio dell’Ellenismo. Lo spaesamento del cittadino attivo, improvvisamente divenuto unus e pluribus, comporta la nascita di un’arte deliberatamente amorale volta all’analisi del singolo e del reale, contro ogni prescrizione aristotelica. Mi si potrà a buon diritto far notare la differenza tra amoralità e immoralità: ecco, l’arte ellenistica, oggettivamente amorale, fu considerata immorale dagli aristotelici. Oggi, tuttavia, la critica concorda nel definire questa scelta individualistica una “nuova morale”. Dunque essa è sia morale sia immorale; ciò che varia è il punto di vista. A poco vale l’obiezione di chi teme, così, di travisare l’intenzione dell’autore: l’arte è pensata – lo dicono gli artisti – per essere eterna e universale. È difficile, però, immaginare un pubblico perennemente immutato. Lo scopo è, dunque, trasmettere un messaggio a ogni singolo e questo messaggio non può che dipendere dal ricettore.
Risolto il nodo dell’intento, tre sono le questioni da analizzare: oggetto, stile, autore. L’oggetto più controverso nella storia dell’arte è senz’altro il nudo. La sua equilibratissima e armoniosa perfezione formale nella statuaria greca si eleva a legge morale con il Neoclassicismo teorizzato da Winckelmann. Questo, però, solo dopo secoli in cui Daniele da Volterra, il Braghettone, aveva dovuto coprire le “immoralità” affrescate da Michelangelo nel cuore della Chiesa di Roma. Anche in uno stesso periodo il medesimo oggetto può risultare morale e immorale: il seno scoperto della Libertà che guida il popolo, imitatio allegorica della Venere di Milo, fu accolto senza lo scandalo che seguì la nudità di una borghese parigina intenta a fare Colazione sull’erba. Ciò che influenza il giudizio è, in questo caso, il contesto che “filtra” uno stesso oggetto.
Per quanto riguarda lo stile, si pensi al Realismo francese. Questo movimento, alla luce del pensiero democratico odierno, d’ispirazione certamente socialista, è ritenuto avanzatissimo e moralissimo – oggi sarebbe politically correct – grazie alla sua attenzione alla vita quotidiana dei più umili. Ebbene, il celebrato capolavoro realista di Courbet Funerale a Ornans dovette essere esposto, al Salon di Parigi, in un padiglione separato, in quanto squallidamente immorale nella rappresentazione. “Deve essere disgustoso essere seppelliti a Ornans”, fu il giudizio di un critico.
Neanche lo stile, dunque, può essere indice di moralità. Ora si consideri un nuovo aspetto, forse il più spinoso: l’artista. Ritengo che, dal punto di vista etico, il legame artista-oggetto si limiti all’atto di invenzione e produzione, “né vale rimandare il giudizio di moralità alla personalità dell’artista distinta da quell’opera”, aggiunge Pareyson. Un lettore attento potrebbe obiettare che senza artista non c’è arte e che non tutti i grandi artisti sono grandi uomini. È chiaro che elogiare artisti – ben inteso, persone – moralmente discutibili possa risultare rischioso, tuttavia chi si trova di fronte a una tela di Caravaggio non ragiona di essere dinanzi al prodotto di un assassino, ne celebra piuttosto il valore artistico. È necessario dunque operare una distinzione tra artista-creatore e artista-uomo. Quando ciò non accade, si corre un duplice rischio: prendere come modelli morali grandi artisti, ma pessimi uomini, o anche disconoscere le qualità creative di grandi artisti anteponendo loro dei vizi morali. Il feroce e spregevole antisemitismo di Roald Dahl non rende automaticamente antiebraico Willy Wonka o La fabbrica di cioccolato. Il pericolo, in questi casi, è la cosiddetta cancel culture, l’equivalente moderno della damnatio memoriae. Sarebbe un errore dimenticare Kipling, con il suo Nobel e il suo Libro della giungla, per delle posizioni filo-colonialiste e proto-razziste certamente da biasimare, ma anche da inserire nel proprio contesto. Allora, la moralità dell’opera di Kipling (si prenda in esempio The white man’s burden) non era oggetto di discussione; oggi, giustamente, riconoscere l’arretratezza di una determinata concezione contribuisce alla formazione di un nuovo sistema etico-morale. Ancora una volta, ciò testimonia la variabilità e l’oscillazione dell’idea di moralità in dipendenza dal contesto.
Intento di questo scritto, sia chiaro, non è un giustificazionismo dell’arte accusata di immoralità né si professa un intrinseco contenuto spirituale sulla scia di Schelling e Hegel, ma si contrasta, in linea con Luigi Pereyson, l’opinione diffusa dell’autonomia dell’arte rispetto alla morale. L’arte, qualunque sia l’intenzione, l’oggetto, l’autore o lo stile, si realizza pienamente soltanto negli occhi di chi la contempla. Da essi soli, pertanto, acquisisce fama di moralità o immoralità, una fama destinata a variare nel tempo seguendo l’evoluzione del pensiero.