di Mariachiara Raganato, III G

È profondamente difficile circoscrivere ad una sola definizione il concetto di “arte”. Si può tuttavia affermare con certezza che questa costituisca l’espressione dell’essenza dell’epoca in cui viene prodotta, attraverso la rappresentazione visiva, linguistica o uditiva di valori, interpretazioni del mondo, usi e costumi caratteristici di quel determinato tempo. L’arte dunque, che esiste da sempre, ha toccato fin dal principio tutti gli aspetti dell’attività dello spirito umano: uno tra i più importanti tra questi è sicuramente la moralità.

Il concetto di “morale” si è affermato con decisione nella vita dell’uomo soprattutto a partire dalla filosofia socratica, il cui principale obiettivo era proprio quello di guidare i giovani verso un comportamento giusto e virtuoso. Pertanto, ne consegue che, sin dagli albori della Grecia antica, arte e moralità iniziarono a intrecciarsi, oppure, se volessimo usare un termine hegeliano, a risolversi l’una nell’altra, intraprendendo una convivenza armonica. Basti pensare che nella Poetica di Aristotele il filosofo afferma che l’arte tragica ha una funzione catartica, è cioè funzionale alla repressione dei ferini istinti che intrinsecamente caratterizzano la natura umana attraverso la purificazione della stessa, affinché i cittadini siano poi reinseriti decontaminati nella comunità civile e si comportino correttamente, senza costituire un pericolo per il bene comune.

Luigi Pareyson propone varie interpretazioni in merito al binomio arte-moralità. In primo luogo egli riporta l’opinione di chi sostiene che l’arte non debba essere né morale né immorale, ma che debba essere valutata nella sua autonomia di espressione artistica, la quale altrimenti rischierebbe di passare in secondo piano, subordinandosi ad altri valori. Secondo tale interpretazione dunque, l’arte non dovrebbe comunicare nulla dal punto di vista etico. Altri invece sostengono che l’arte debba trasmettere dei valori in tale ambito, a patto che questi siano esclusivamente valori giusti, virtuosi, corretti. Infatti, secondo questa prospettiva, l’arte deve essere necessariamente morale per essere considerata tale, poiché, se questa fosse immorale, non potrebbe essere ritenuta davvero un’opera d’arte.

Pareyson passa in seguito ad una seconda questione: tralasciando la discussione su un’eventuale moralità o immoralità trasmessa dall’oggetto artistico, si chiede se un’opera d’arte possa essere considerata morale o immorale prendendo in considerazione non il prodotto artistico in sé, bensì lo stile dell’autore. La domanda che egli si pone è dunque se si possano valutare come “morali” o “immorali” le modalità con cui quell’oggetto viene trattato ed espresso artisticamente.

La mia posizione in merito alla prima questione posta, è che l’arte abbia intrinsecamente in sé una finalità educativa e che abbia quindi per natura una funzione “morale”, intesa esclusivamente secondo una prospettiva positiva. Le argomentazioni a favore di tale tesi sono molteplici: l’arte permette di effettuare un’autoanalisi, aiutandoci a scegliere delle strade piuttosto che altre, ci trasmette inevitabilmente dei valori, ci permettere di conoscere il funzionamento e la percezione del mondo propri di altre realtà e di altre epoche storiche, inoltre spesso ci dà anche la possibilità di riflettere sugli errori commessi al fine di non cadere nuovamente negli stessi.

In primo luogo l’arte ha un enorme potere terapeutico ed esercita una grande influenza sulle nostre menti, condizionando inevitabilmente anche il nostro comportamento: ce lo insegna proprio Aristotele nella Poetica quando ci parla della sua funzione catartica e purificatrice. Inoltre al giorno d’oggi sono stati effettuati studi scientifici su tale capacità dell’arte ed è stato confermato che questa sia in grado di cambiare una persona, il suo comportamento, di modificare il suo modo di pensare. Quante volte abbiamo sentito le frasi “questo libro mi ha cambiato”, “questa canzone mi ha fatto piangere”, “questo testo mi ha aperto un mondo”? La forza della dell’arte è tra le più potenti che ci siano: attraverso un’esperienza artistica si esce inevitabilmente mutati, arricchiti, elevati. Un brano musicale, un testo letterario, una scultura, un quadro sono in grado di sprigionare emozioni che, come gli eìdola epicurei, ci colpiscono e ci inducono a riflessioni, pensieri, interrogativi. L’arte riesce ad aprirci a nuove prospettive e ci aiuta a trovare delle risposte alle nostre domande, trasmettendoci insegnamenti, riuscendo persino a suggerirci come comportarci in determinati contesti e situazioni.  Mi è capitato a tal proposito di leggere una testimonianza su come la lettura di un libro di poesie abbia aiutato una ragazza nella scelta di un comportamento da adottare in un momento particolarmente difficile della sua vita.

Questo avviene proprio perché l’arte, sotto qualsiasi forma si manifesti, è sempre portatrice di valori. Le statue greche classiche ad esempio sono l’emblema del kalòs kai agathòs, cioè del connubio tra bellezza estetica e rettitudine morale che doveva caratterizzare il cittadino modello nella pòlis greca. In questo modo tali sculture divenivano delle fonti ispiratrici a cui far riferimento per essere considerati uomini virtuosi, assumevano quindi lo stesso ruolo delle idee platoniche: modelli da imitare per comportarsi nella maniera corretta.

Conseguentemente, è chiaro che dalle opere artistiche riusciamo ad estrapolare e a conoscere i principi su cui sono fondate altre civiltà e altre epoche storiche: l’arte diventa così anche un mezzo di comunicazione etico-valoriale, dunque un modo per estrapolare dal passato e dal diverso valori positivi, o che abbiamo perso nel corso del tempo e a cui vorremmo tendere nuovamente, oppure che non abbiamo mai incontrato, costituendo un’occasione per conoscerne di  nuovi ed eventualmente per sperimentarli. Un esempio concreto potrebbe essere quello di Winckelmann, il quale, in un’epoca in cui percepiva che l’arte e la morale fossero ormai in decadenza, auspicava ad un ritorno ai valori della Grecia antica. Egli diviene dunque il teorico del Neoclassicismo attraverso la riproposizione degli ideali della nobile semplicità e quieta grandezza proprio a partire dall’arte. Winckelmann sceglie la statua dell’Apollo del Belvedere come modello rappresentativo di tali principi, invitando tutti a recuperare quell’essenzialità, quella rettitudine morale, quel senso dell’onore e del coraggio che avevano caratterizzato i grandi uomini del passato e che quell’opera artistica era magistralmente in grado di trasmettere.

Infine l’arte ci permette di riflettere su errori e atrocità commesse: diviene dunque un mezzo educativo al fine di imparare dagli sbagli e agire di conseguenza, comportandosi in maniera giusta. Un esempio emblematico è caratterizzato da tutta l’opera di Charles Dickens, il quale scriveva proprio per mettere al corrente la classe al potere delle profonde ingiustizie sociali di cui soffriva la società vittoriana: le tragiche condizioni dei lavoratori, lo sfruttamento minorile, l’assenza totale di un sistema igienico sanitario, lo stato delle abitazioni della popolazione più povera. Lo stesso scopo avevano le opere di Courbet: nello Spaccapietre è evidente come egli voglia mostrare il tragico destino di coloro che nascevano come lavoratori sfruttati, vivevano come lavoratori sfruttati e morivano come lavoratori sfruttati, senza la possibilità dell’apertura a nuovi orizzonti o di un qualche progresso. Oppure anche lo stesso Francisco Goya si fece portatore della denuncia alle atrocità commesse nella Spagna del suo tempo. Ad esempio con la sua Fucilazione, attraverso le pennellate violente e il sapiente uso dei colori, tra il bianco dell’innocenza, il rosso sangue e il nero dell’oscuro potere prevaricatore, Goya ha saputo trasmettere in modo estremamente chiaro la critica ai Lumi della ragione illuminista e il fallimento della stessa.

Passando invece alla seconda questione, sono dell’opinione che sia profondamente giusto prendere in considerazione anche le modalità stilistiche con cui viene costruito il prodotto artistico poiché credo che anche queste abbiano molto da comunicare e caratterizzino un sottile ausilio per una più approfondita comprensione dell’opera. Ad esempio nell’arte impressionista lo stile è quasi più importante alla comprensione dell’opera che l’opera in sé: ciò che più conta è l’espressione che un determinato stimolo esterno suscita nell’artista il quale, partendo dalle proprie sensazioni, opera una sintesi volta ad eliminare il superfluo per arrivare a cogliere la sostanza. La luce e il colore sono i principali mezzi comunicativi: vengono usati con la maggior immediatezza possibile cercando di cogliere le sensazioni di quel determinato istante, con la consapevolezza che l’attimo successivo potrebbe generare sensazioni del tutto diverse: conseguentemente cambierebbe anche ciò che l’opera trasmette. Tuttavia, non ritengo che sia lo stile dell’artista che debba essere considerato “morale” o “immorale”. Ad esempio le modalità con cui Michelangelo dipinse il Giudizio Universale furono lungamente criticate dalla Chiesa, che fece modificare quelle che riteneva essere “volgari oscenità” e fece coprire le nudità. Altrettante critiche di “immoralità” furono rivolte ad esempio a Caravaggio, il quale rappresentava le figure sacre immerse in un ambiente oscuro e tenebroso, quasi inquietante, umanizzava i santi, rendendoli degli “straccioni” e raffigurandoli con i piedi sporchi. Anche l’arte di Van Gogh è considerata da alcuni espressione di un’eccessiva violenza, dal momento che le pennellate dell’artista sembrano quasi tagliare la tela; tuttavia esse rappresentano proprio la qualità artistica del pittore olandese, l’espressione più veritiera del suo tormento interiore.  Pertanto, non penso che le modalità espressive degli artisti debbano essere giudicate “immorali” poiché costituiscono esse stesse, prima di ogni altro elemento, il fondamento del messaggio che si vuole trasmettere. Infatti un artista deve giungere alla sua creazione finale sentendosi libero di esprimersi senza limitazioni o etichette di alcun tipo, altrimenti la sua arte, e conseguentemente il suo messaggio, risulterebbero falsati.

Qualcuno potrebbe tuttavia obiettare che l’arte possa non avere nulla da dire o da comunicare, tantomeno nell’ambito morale. C’è infatti chi si mostra totalmente disinteressato e percepisce un quadro come una semplice tela raffigurante un qualche soggetto, una statua come un semplice blocco di pietra, un brano musicale come una semplice sequenza di note… Si ferma cioè all’apparenza del prodotto artistico, constatando che questo non sia in grado di trasmettere valori di alcun tipo, in quanto limitato dalla sua materialità. È proprio questo il limite che incontrava Hegel nell’arte: la corporeità inadeguata ad esprimere l’incommensurabile potenza dell’Infinito. Tuttavia Hegel aveva compreso che bisognava andare oltre al limite materiale, tanto che la sua speculazione filosofica avvia un processo di progressiva smaterializzazione per poter cogliere nella maniera più adeguata possibile l’Assoluto. Pertanto, suggerirei a chi è di questa opinione di scavalcare l’apparenza, di andare oltre: bisogna squarciare il velo di Maya e saper cogliere oltre il senso letterale, essere in grado recepire i messaggi, gli insegnamenti, l’alètheia, anche da ciò che sembrerebbe essere materialmente limitato, perché si tratta solo di apparenza, di dòxa.

Se un’artista produce arte, significa che sente la necessità di comunicare qualcosa al mondo, di avere un messaggio da tramandare, sia esso un messaggio morale e educativo o sia esso semplicemente un bisogno intimo di espressione personale, di esternazione emotiva della propria interiorità. Pertanto, qualsiasi sia la motivazione che si cela dietro di essa, l’arte avrà sempre qualcosa da trasmettere. Troviamo la conferma di ciò anche nella Critica del giudizio di Immanuel Kant: egli afferma che è bello ciò che piace senza che l’origine del giudizio derivi da un concetto razionale o da una legge prestabilita. Pertanto, anche il filosofo illuminista della ragione, della trascendentalità e della speculazione fenomenica riconosce la presenza dello stimolo emotivo e del sentimento nella costruzione del giudizio davanti ad un’opera artistica. Dunque, in conclusione, se abbiamo constatato che l’arte ha intrinsecamente e inevitabilmente un potere comunicativo, allora come conseguenza possiamo affermare che questa possa trasmettere valori educativi ed etici e che pertanto possa essere considerata “morale”.

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