Marco Mascioli, III F

«Sebbene la comprensione del nostro intelletto sia assai ristretta rispetto alla vasta estensione delle cose, avremo tuttavia motivi sufficienti per esaltare il prodigo Autore del nostro essere per quella proporzione e quel grado di conoscenza che egli ci ha conferiti al di sopra di tutti gli abitanti di questa nostra dimora […] Gli uomini troveranno sempre materia sufficiente per tenere operose le loro teste e occupate le loro mani in modo vario, dilettevole e soddisfacente, se non vorranno arrogantemente prendersela con la loro propria costituzione e buttar via i tesori di cui sono colme le loro mani, solo perché non sono grandi abbastanza per afferrare tutto». John Locke, Saggio sull’intelletto umano, libro I, cap. 1,3-7 (1690).

L’uomo è giocatore. Come tale, non lo soddisfano vincite corpose, ma anzi egli tenterà sempre di raddoppiarle, fino a che, così facendo, non si ridurrà in rovina. In ugual modo, insoddisfacente è per lui la limitata conoscenza che possiede, “assai ristretta rispetto alla vasta estensione delle cose”. Ciò lo spinge, contrariamente a quanto teorizzato da Locke, a una forsennata ricerca dell’illimitato, ahimè inattingibile. Il risultato di questo inevitabile processo è una costante frustrazione del desiderio umano, causa di una perenne insoddisfazione. Con questo scritto s’intende non solo negare la serena accettazione da parte dell’uomo del suo grado di conoscenza, ma anche dimostrare che quanto più conosce, tanto più egli è infelice.

Da questo quadro traspare un’immagine dell’uomo vicina a quella del mitico Tantalo: per quanto si sforzi ad allungare il collo e spalancare la bocca, i frutti e l’acqua, che egli non può che vedere, gli si fanno sempre più lontani. Non importa quanto l’uomo indaghi – e in ciò riesca, altroché – la realtà fenomenica, essa rimarrà solo una minima parte dell’estensione delle cose. Riguardo questa premessa, la limitatezza della conoscenza umana rispetto all’illimitatezza della realtà, si concorda dunque con Locke (“[gli uomini] non sono abbastanza grandi per afferrare tutto”). Il filosofo inglese, tuttavia, sembra ignorare il naturale conatus umano – per dirla con Spinoza – verso la conoscenza dell’ignoto, e afferma pertanto che l’uomo più di altri animali debba esaltare il creatore per il grado di conoscenza che lo contraddistingue.

Si tenti però con me un ragionamento per assurdo: si immagini che l’uomo abbia effettivamente conoscenza infinita. Egli conosce ormai il perché di ogni cosa, conosce l’inizio e la fine, è in grado di rispondere a ciascuna sua domanda. Cosa resterebbe oramai a tale uomo? Come potrebbero gli uomini tenere “operose le loro teste e occupate le loro mani in modo vario, dilettevole e soddisfacente”? Verrebbe meno lo stesso conatus che è linfa della vita. Vita che sarebbe, allora, solo angoscia e noia. Scire nefas.

Dimostrato che a una maggiore conoscenza non corrisponde inevitabilmente una maggiore felicità, si pensi al sapere umano come al limite di una funzione crescente tendente a infinito. Se pure l’uomo, conoscendo, non può raggiungere l’infinito, è altresì vero che vi si può avvicinare. Ciò è anzi addirittura accertato dai progressi scientifico-tecnologici che ne hanno caratterizzato la storia.  Quando l’uomo, come la x di una funzione, tende a infinito avvicinandovisi sempre di più, anche la y – l’insoddisfazione – si accosta a quel valore. Se la massima conoscenza corrisponde a massima infelicità, una conoscenza quasi massima sarà quanto di più vicino a un’infelicità massima. La “proporzione” e il “grado di conoscenza che egli ci ha conferiti al di sopra di tutti gli abitanti di questa nostra dimora” non rappresentano, dunque, pregi da esaltare, bensì la crudele condanna di una natura maligna. Se pure è vero che il pensiero consapevole distingue l’uomo dalle bestie, è il caso di ritenerci più fortunati? È più felice l’uomo che teme la morte o il coniglio che le va incontro ignaro?

Secondo il francese Blaise Pascal, la condizione esistenziale dell’uomo è la miseria, vale a dire la profonda consapevolezza della limitatezza, debolezza e fragilità che lo contraddistinguono. Egli, nonostante i progressi scientifici – non si dimentichi che Pascal era un fine matematico e scienziato – è come un “giunco al vento”, impotente davanti all’infinita forza dell’universo. L’unico rimedio, pur temporaneo, alla miseria per Pascal è il divertissement, lo stordimento che deriva da attività futili sì, ma in grado di distrarre. A nulla serve approfondire la conoscenza: è proprio l’elevato grado di consapevolezza a rendere l’uomo più misero rispetto alle altre specie. Una simile visione appare dal Dialogo della Natura e di un Islandese di Leopardi, a confermare una linea di pensiero sostanzialmente diacronica, che affonda le proprie radici nella Grecia arcaica della lirica di Mimnermo e della tragedia. In Leopardi, filosofo prestato alla letteratura, lo scarto è principalmente tra il desiderio concettuale di piacere, che è illimitato, e il sentimento effettivo di piacere, limitato. Non manca, però, un forte interrogativo gnoseologico nelle parole dell’Islandese, il quale, come a testimoniare la tesi dello scritto, è distrutto dall’ineluttabile ciclo della natura proprio nel massimo momento di slancio conoscitivo all’interno di quello che Kant definisce giudizio teleologico.

Secondo il filosofo prussiano, infatti, all’uomo è permesso rispondere al perché? causale – perché l’acqua a 100°C bolle? A causa dell’incremento di energia cinetica – ma non al perché? finale: da chi/come è stato deciso che l’acqua bolla a 100°C? Con quale scopo? È questa la cosiddetta causa finale kantiana, non conoscibile scientificamente ma stimolante per la mente umana, che grazie a essa – e al suo naturale conatus – esplora nuove discipline come la psicologia, la cosmologia e la metafisica. Ma la questione dello studio scientifico delle cause risulta paradossalmente più complessa. Lo sviluppo tecnologico-scientifico ha portato correnti positiviste a credere che l’intera realtà sia interpretabile razionalmente. I progressi conoscitivi, in questi ambiti, sono d’altronde strabilianti. Basti pensare alle informazioni che oggi si hanno riguardo l’universo. Eppure, il sapere umano fatica a elaborare questo immenso quantitativo di informazioni. Come può una mente umana, limitata, concepire, comprendere, spiegare l’infinitezza dell’universo? Come può chiarire cosa ci fosse prima del Big Bang? E prima ancora?

Tali domande stimolano il genio umano e ogni volta lo frustrano. L’uomo, come Tantalo, vede l’obiettivo della sua ricerca: può dunque demordere? Se anche lo facesse, riconoscendo la natura finita del suo intelletto e la sua incapacità di cogliere l’infinito, sarebbe costretto a vivere come un giunco al vento nella consapevolezza della sua miseria, preda di un universo più grande, più forte, più impenetrabile di lui. Qualora invece insista, assecondando il proprio conatus, si troverà di fronte una duplice strada: fallire, vedendo il proprio desiderio illuso, frustrato e insoddisfatto, oppure procedere verso il limite della funzione. Massima conoscenza, massima infelicità. Sapere non è sapienza.

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